L'INFINITO
Tratto da Bruno, Giordano Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Filosofia (2012) di Michele Ciliberto.
Vi è in ogni filosofo un punto archimedeo intorno al quale si raccolgono i fili di tutta la sua ricerca e della sua filosofia.
Nel caso di Bruno è il concetto di infinito. Se ne potrebbero indagare le complesse scaturigini nel corpo della sua opera. Ma qui conviene ribadire anzitutto un elemento essenziale: esso incide su tutti gli aspetti della «nova filosofia» – dalla gnoseologia all’ontologia, dall’estetica alla concezione del valore delle immagini e dello stesso testo filosofico che, considerato dalla prospettiva dell’infinito, si rivela come una struttura infinitamente aperta – e al tempo stesso segreta –, da decifrare da una pluralità di punti di vista, senza mai ritenere che esso si possa risolvere nel suono di un solo tema, di un solo motivo.
Bruno, anche in questo caso, riprende temi della tradizione – quali, per es., i ‘sileni di Alcibiade’ –, ma ripensandoli in chiave filosofica, in modi tutti diversi, che trasformano in maniera radicale il classico motivo letterario della silenicità.
Conviene però procedere per ordine, analizzando – brevemente e in modo sintetico – due aspetti importanti della «nova filosofia», entrambi connessi alla ‘scoperta’ dell’infinità: in primo luogo, la teoria delle immagini che ne consegue, e poi la rivoluzionaria concezione del testo letterario che Bruno propone nella Cena de le Ceneri. È noto: le immagini svolgono, in generale, una funzione rilevante in molti autori del Rinascimento. Ma, anche in questo caso, Bruno opera un rivolgimento decisivo: per lui, infatti, il ‘pensare per immagini’ assume un valore centrale perché si situa nella prospettiva ontologica dell’infinito e, correlata a essa, in una concezione antropologica imperniata, fin dai primi scritti, sul limite e sulla dimensione ‘umbratile’ della condizione umana.
Fin dall’inizio della sua attività Bruno individua, infatti, con forza la differenza insuperabile tra finito e infinito e svolge, di conseguenza, una critica inesorabile del trinitarismo cristiano. Se si volesse trovare un filo rosso che distingue il suo pensiero dall’inizio alla fine, esso risiede, precisamente, nella consapevolezza della ‘sproporzione’ tra finito e infinito, tra uomo e Dio: per questo la figura di Cristo è ai suoi occhi letteralmente inconcepibile ed è sbeffeggiata in modo sanguinoso nello Spaccio de la bestia trionfante, dove è identificato prima in Orione, quindi nel centauro Chirone – mezzo uomo e mezza bestia. Bruno però – ed è questo uno dei tratti costitutivi della sua posizione – non si limita all’accettazione di questa ‘sproporzione’, che gli serve per rifiutare sia il dogma della trinità che quello dell’incarnazione; ma si interroga in modo costante – e questo è l’altro filo rosso della sua riflessione – sulle vie attraverso cui l’uomo, che pure è un ente finito, possa riuscire a toccare qualcosa dell’infinito, cioè della «prima bontà» e della «prima verità». È precisamente nel corso di questa ricerca che egli si imbatte nel tema delle immagini, destinate a diventare il centro generatore di tutta la sua filosofia. Alla base della rivoluzione linguistica proclamata con energia nella Cena de le Ceneri – come ora si vedrà – c’è proprio questo tipo di questioni: quella che Bruno teorizza in quel testo, collegandola in modo organico alla pittura, è precisamente una ‘scrittura per immagini’ – l’unica in grado, e proprio perché così costituita, di poter rappresentare e descrivere il cammino dell’uomo verso la verità, la quale, nella sua dimensione «absoluta», è inaccessibile all’uomo.
Ma questo punto si impone in modo pieno e compiuto soprattutto negli Eroici furori, nei quali il viaggio del filosofo verso la verità – descritto in termini parodici nella Cena – si svolge in forme coinvolgenti e appassionanti attraverso una spettacolare galleria di immagini – non dipinte, perché è impossibile farlo, ma descritte, e rappresentate come punti cardinali dell’itinerario del furioso verso la verità. Nell’universo infinito, infatti, all’uomo non è possibile accedere alla verità solo attraverso la potenza dell’intelletto, il quale non è in grado di penetrare in ciò che strutturalmente lo oltrepassa – per la ‘sproporzione’ che si è detta. Perché l’uomo possa attingere qualcosa della «prima verità» è necessario ricorrere alla forza della volontà (alla potenza dei «mastini»), la quale, come una sorta di energia eccezionale, sospinge l’uomo oltre i propri limiti, a rischio della sua stessa vita, ma mettendolo in condizione di toccare, sia pure per un momento e nell’«ombra» della natura, la «prima verità».
È questa, per Bruno, l’apocalypsis, l’esperienza eccezionale nella quale si compie l’itinerario del furioso, mai uniforme, mai riducibile a una regola fissa, stabilita una volta per sempre e per tutti.
Nell’infinito ciascuno è infatti chiamato ad assumersi, di fronte alla verità, la propria responsabilità, e ad accettare di correre, in nome della vita, il rischio della fine, della morte. Né questa posizione sorprende: è l’ontologia della Vita-materia infinita che genera l’esperienza dell’eroico furore, e le modalità sempre nuove e sempre originali dell’accesso dell’uomo alla verità.
Ma l’azione della volontà, per poter essere efficace, si deve congiungere, a sua volta, alla potenza dell’immaginazione: solo attraverso una inesauribile produzione di immagini (il sinus phantasticus, cui si è già fatto riferimento) essa riesce a dischiudere all’uomo, oltre la vita, la vita «beata», la «più che vita». Senza immagini, l’uomo resta chiuso nel suo limite; fermo alla ‘circonferenza’, si limita a comprendere il ritmo della vicissitudine universale; per avvicinarsi al ‘centro’ ‒ e oltrepassare l’orizzonte della ‘sapienza’ ‒, è necessario fare l’esperienza del furore. Al centro, nell’infinito, non è però possibile avvicinarsi per via retta, secondo le regole del moto fisico; occorre mettersi da un punto di vista radicalmente nuovo, quello del «moto metafisico»: un moto che ci avvicina e, insieme, ci distanzia incessantemente dalla verità, dischiudendoci, per un istante ‒ e come in un flash ‒ l’esperienza dell’apocalypsis.
Per la sua stessa struttura interiore questa visione si colloca al confine tra l’umano e il divino; ma proprio perché si situa in questo punto, essa sbalza l’uomo oltre se stesso, mutandone – sia pure per un istante – la figura, e la funzione, nella ‘scala’ degli esseri, spezzando l’ordine della vicissitudine. E, a sua volta, questo può accadere perché in tale processo il furioso e tutte le sue facoltà si trasformano; e, trasfigurati, vengono posti a un altro livello della realtà. Il furore, nel suo intimo, è infatti rottura dei confini, degli equilibri stabiliti e degli assetti normali della vita; e, in quanto tale, esso è, per l’uomo, apertura di un’altra dimensione, mai acquisibile – anzi, neppure immaginabile – con gli strumenti ordinari della conoscenza.
Nell’esperienza del furore mutano tutti i punti di riferimento e tutti i giudizi ordinari, compresi quelli sul furore stesso: esso, scrive Bruno in una pagina assai bella, non è «oblio», ma una più profonda «memoria» di sé (Eroici furori, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 806). Ma, come si vede proprio negli Eroici furori, esso può esprimere tutta la sua energia solo se rinuncia agli ‘strumenti’ ordinari e individua nuove ‘potenze’ conoscitive capaci di situarsi, per la loro stessa costituzione interiore, sul confine; e nelle quali si possano perciò intrecciare, fino a fondersi, pittura e scrittura, ragione e passione, oltre le distinzioni e i ruoli tradizionali. In breve: se il furioso vuole condurre una «caccia» vittoriosa, deve esprimersi, e realizzarsi, attraverso una inesauribile produzione di immagini; le quali – sorgendo dall’interno dell’uomo e proiettandolo fuori da se stesso – sono le uniche che gli consentano di afferrare qualche traccia della verità. Bisogna dunque imparare a ‘pensare per immagini’.
Non è una scelta, ma una necessità: solo chi, come il furioso, ‘pensa per immagini’, può situarsi nel «moto metafisico», aprendo gli occhi verso la «prima verità». E senza illudersi di togliere una volta per tutte, e in via definitiva le distinzioni tra uomo e Dio, tra finito e infinito. Su questo Bruno è sempre netto, anche nei Furori. Si tratta di una esperienza eccezionale, mai compiuta una volta per tutte; ma proprio perché spinge l’uomo oltre se stesso ed è strutturalmente ‘viziosa’, essa non può essere una condizione ordinaria del vivere dell’uomo. Ordinario è il limite, la condizione finita in cui l’uomo è collocato.
In Bruno, l’esperienza della verità – la possibilità dell’apocalypsis – è un rischio, una sfida permanente sempre aperta alla possibilità dello scacco; né – come si è già accennato – essa segue percorsi stabiliti (e quindi imitabili, ripercorribili), definiti secondo una serie di stazioni dell’anima rigorosamente individuate e ‘misurate’. Il problema posto e risolto in quel testo eccezionale consiste nel trovare un «punto de l’unione» tra dimensioni non commensurabili, in grado di metterle in comunicazione; nell’individuare un confine tra due mondi. Sta qui, precisamente, la forza, e l’importanza decisiva, delle immagini: nel loro essere potenze ‘confinarie’, forze di frontiera.
Nel De l’infinito universo e mondi, riferendosi alla nostra immaginazione, Bruno dice che essa è potente di procedere in infinito imaginando sempre grandezza dimensionale oltre grandezza, e numero oltra numero, seconda certa successione e (come se dice) in potenzia (in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 345). E su questa base la rapporta e, al tempo stesso, la distingue da Dio, il quale «si deve intendere che […] attualmente intende infinita dimensione et infinito numero». Quanto nel «primo principio» è pienamente realizzato, nell’immaginazione si attua attraverso un movimento inesauribile in cui si esprime la tensione dell’uomo sia verso la divinità che verso la verità, in un moto senza fine che è il segno distintivo dell’umanità, quando essa si propone, con tutte le sue forze, di uscire da se stessa – a ogni costo – per cogliere ciò che strutturalmente la oltrepassa.
Alcuni interpreti hanno insistito sull’importanza di Dio nella «nova filosofia». Ma su questo punto bisogna essere chiari.
Quello che effettivamente interessa a Bruno non è il «primo principio», Dio; gli preme l’universo e, con esso, le «cose de l’universo», a cominciare dall’uomo.
Come si vede bene nel De l’infinito, per quanto possa apparire paradossale, è l’universo che pone Dio; né Dio può fare a meno dell’universo e dei mondi che incessantemente produce: Un giorno – si legge negli atti del processo – […] disse che Dio havea tanto bisogno dell’uomo quanto il mondo di Dio, e che Dio non sarebbe niente se non vi fosse il mondo, e che per questo Dio non faceva altro che crear mondi nuovi (Firpo 1993, pp. 267-68). Se sparissero l’universo e i mondi che lo compongono, sparirebbe dunque anche Dio: sono, in essenza, unum et idem; l’uno non può essere senza gli altri, e reciprocamente. È per questo, come si è appena visto, che le immagini assumono in Bruno un significato così decisivo come potenze ‘confinarie’, forze di frontiera: sgorgando, in un moto inesauribile, dal sinus phantasticus esse consentono all’uomo di entrare in comunicazione con Dio, attraverso l’universo.
Ma – e questo testimonia la radicalità della sua posizione – lo stesso universo intanto può essere «compreso» dall’uomo, mediando il suo rapporto con il «primo principio», in quanto venga riconcepito, esso stesso, come immagine, come figura eccelsa, vestigio altissimo, infinito ripresentato di ripresentante infinito, e spettacolo conveniente all’eccellenza et eminenza di chi non può esser capito, compreso, appreso (De l’infinito universo e mondi, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit., pp. 317-18). È solo in questo modo, riconcependolo cioè come immagine, che l’universo può essere «compreso», e può essere contemplato in esso il primo principio, il quale «non si glorifica in uno, ma in soli innumerabili: non in una terra, un mondo, ma in diececento mila, dico in infiniti» (p. 318). È chiaro dunque il ‘circuito’ costituito da Bruno: dall’universo a Dio, da Dio all’universo, attraverso un movimento inesauribile di immagini al centro del quale stanno l’uomo e l’infinita capacità della sua immaginazione, della sua produzione immaginativa.
Qualunque sia il punto di vista che si assume, sia esso soggettivo oppure oggettivo, la realtà è costituita da immagini infinite che, come specchi, si rifrangono le une nelle altre producendo un infinito universo di luce – siano esse stesse sorgenti luminose, cioè soli; oppure superfici illuminate, cioè terre che, come acque, rifrangono la luce e la potenza del sole. In questo modo Bruno trasforma, da un lato, l’universo in immagine, in una realtà totalmente luminosa; dall’altro, l’uomo in «purissimo occhio» in grado di cogliere – attraverso l’immagine dell’universo – l’unità di tutta la realtà. Il furioso, scrive Bruno in una pagina ormai classica, vede l’Amfitrite, il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte ragioni, che è la Monade, vera essenza de l’essere de tutti; e se non la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura che gli è simile, che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura, l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia come il sole nella luna, mediante la quale ne illumina trovandosi egli nell’emisfero delle sustanze intellettuali (Eroici furori, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 921). Come si vede, da qualunque punto lo si consideri, il problema delle immagini (e della costellazione concettuale in cui esso si inserisce) costituisce una vera e propria chiave di volta della concezione di Bruno, del tutto originale rispetto ad altre posizioni a lui contemporanee: immagine, ritratto è l’universo; l’uomo stesso è un’ombra; possiamo conoscere attraverso immagini e ciò che conosciamo è a sua volta ombra, ossia immagine della «prima verità», così come Diana – la natura – è ombra di Apollo. Certo, occorrerebbe distinguere in modo specifico i diversi componenti di questa costellazione – immagine, ombra, ritratto –, e verificare quali sono i contesti in cui Bruno li utilizza e con quali differenze e sfumature di significato (quando non li presenta egli stesso come sinonimi).
Qui, però – ritornando a quanto si diceva sopra –, interessa porre in rilievo un punto teorico di ordine generale: è la scoperta dell’infinito che pone, simultaneamente, il problema dell’immagine, dell’ombra, del ritratto. Nell’infinito, senza la mediazione dell’immagine, dell’ombra, la comunicazione fra umano, divino, naturale diventa, infatti, impossibile, perché non si dà alcuna mediazione tra finito e infinito – come a Bruno era, del resto, chiaro fin dall’originaria scelta in favore dell’antitrinitarismo.
Ma, come si è cominciato a vedere, questo problema non riguarda – e non può riguardare – solo il singolo finito (l’uomo), ma concerne – naturalmente a tutt’altro livello – anche l’universo. Bruno rifiuta, come si sa, la distinzione, rispetto a Dio, di potentia absoluta e potentia ordinata; ma è del tutto consapevole di ciò che significa l’infinito sia dal punto di vista dell’universo che da quello dell’uomo. Se Johannes Kepler aveva terrore dell’infinito, e lo dichiarava, Bruno era entusiasta della sua ‘scoperta’; ma era cosciente della sua radicalità e della necessità che essa aveva, per non esplodere, di un quadro teorico generale che rispondesse a due requisiti essenziali: porre – attraverso Dio – l’infinito; ma salvaguardando, al contempo, la costituzione specifica e, per questa via, l’autonomia – al suo livello, ovviamente – dell’universo. È per questo che pone, subito, la distinzione tra Dio e universo, insistendo in modo sistematico sulla differenza tra ciò che è in atto e ciò che è in potenza, fra istante e tempo, fra ‘intensione’ ed ‘estensione’, costruendo una prospettiva binaria incardinata in una serie di coppie – assoluto, comunicato; luce, ombra; «ripresentante», «ripresentato» –, che apre la strada al riconoscimento della centralità del livello, e della funzione, dell’immagine. Specchio, ritratto, immagine del primo principio, l’universo rientra in questa struttura binaria, anzi ne è il caposaldo.
Per Bruno essa era tanto più necessaria perché consentiva di mantenere fermo il concetto della infinita potenza di Dio – essenziale al suo ragionamento –, inserendola in un contesto che ne fonda addirittura la necessità facendola coincidere, attraverso una serie di sillogismi, con la sua stessa libertà. Ma ai suoi occhi questa posizione implicava un altro risultato decisivo, su cui dovrebbero riflettere gli interpreti in chiave ‘trascendente’ del suo pensiero: se la relazione avviene nella forma di una continua comunicazione – espressa dall’infinito prodursi di mondi, cose, accidenti – viene meno, in modo definitivo, e simultaneamente, il concetto di creazione. È da questo complesso di motivi che scaturisce l’articolazione binaria della sua posizione: situarli in questa prospettiva significa distinguere l’infinito di Dio e l’infinito dell’universo e, al tempo stesso, metterli in relazione riconoscendo la specifica struttura dell’universo – ciò che massimamente interessa a Bruno. Certo, egli batte e ribatte sulla sua ‘immobilità’; ma quando considera l’universo ab extra, e lo valuta nella sua ‘unità’. Visto ab intra, esso è in continuo movimento e trasformazione; è tutt’altro che fermo o statico. Appunto per questo la «caccia» del furioso è difficile: perché ciò che egli deve afferrare – e riuscire a cogliere come ‘uno’ – è in moto, in continua successione, è nella universale vicissitudine. E questo riconduce, nuovamente, alla funzione delle immagini, le quali – come si è visto – sono, precisamente, il punto di confine – cioè di mediazione – tra assoluto e comunicato, eternità e tempo, luce e ombra. Infinito e immagine, ombra, ritratto sono dunque i due perni della posizione di Bruno, e sono strutturalmente connessi: simul stabunt, simul cadent.
Quando si parla di infinito e di immagine si entra dunque nel nucleo più profondo della filosofia di Bruno, come risalta con chiarezza anche dalla vera e propria teoria della scrittura elaborata nella Cena de le Ceneri, nella quale – ed è sintomatico – la nuova concezione della realtà è proclamata, per la prima volta, in tutta la sua portata. Qui la ‘scoperta’ dell’infinito ha due effetti: anzitutto sconvolge le gerarchie tradizionali dei materiali linguistici e concettuali; in secondo luogo, pone il problema di una nuova scrittura filosofica imperniata su un radicale rovesciamento del rapporto ordinario tra essere e apparire – qualora essa intenda esprimere il processo reale attraverso cui l’uomo ‘caccia’ la verità.
Come si teorizza nella Cena e si realizza nei Furori, l’esperienza della verità si configura come un ‘viaggio’ che, svolgendosi in una dimensione infinita, non può essere né scandito, né espresso secondo stazioni e ordini precisi, stabiliti una volta per tutte. L’infinito coincide infatti con la dissoluzione di ogni regola ferma, fissa, su tutti i piani.
E come non esiste più una via diretta alla verità e non ci sono luoghi privilegiati in cui essa si presenta, così non è concepibile una scrittura nella quale il ‘viaggio’ del filosofo possa essere presentato in forme fisse, statiche, ordinarie. Se, nell’infinito, la verità è, obiettivamente, segreta, nascosta, allo stesso modo la scrittura deve fare i conti con ciò che è segreto, nascosto, senza rimanere alla superficie della realtà. Vi sono due punti da sottolineare. Anzitutto, si situa qui il fondamento teorico del rapporto tra verità, dissimulazione e scrittura.
La verità, nell’infinito, si nasconde, si cela, si copre; e in questo modo si difende anche dai suoi nemici. Bisogna perciò imparare le tecniche e le dinamiche della dissimulazione, se si vuole scoprire la verità. E la stessa cosa occorre fare quando si scrive un testo che voglia entrare in contatto con la verità. Tra verità, dissimulazione, forme della scrittura c’è un rapporto organico, ontologicamente fondato. In secondo luogo, proprio perché diventa uno strumento fondamentale nella tensione dialettica fra essere e apparire, nella ricerca della verità la scrittura svolge, in forme proprie, una funzione omogenea a quella delle immagini. È questa la radice teorica della centralità, in Bruno, del rapporto tra scrittura e pittura.
La scrittura, quando voglia realizzare i suoi scopi, deve essere sempre costituita da una specie di ‘geroglifici’ – se dal piano della lingua si vuole scendere a quello dei «sentimenti», cioè della verità. Risiede qui la pietra di paragone, e di giudizio, della scrittura: c’è, infatti, la scrittura inerte dei pedanti e c’è quella che entra in contatto con la verità, con l’infinito; quella che sa essere, al tempo stesso, dentro e fuori l’alfabeto. In una parola ‒ e qui siamo a un luogo teoricamente centrale ‒, quella che nel suo procedere fa proprie, appunto, le tecniche della pittura. Ut pictura philosophia, pensa Bruno: il filosofo, come il pittore, lavora sui frammenti, sui dettagli, sugli «stracci», perché, mettendosi dal punto di vista dell’infinito, sa quanto questo abbia mutato le modalità di accesso alla verità e le forme della sua rappresentazione.
Nell’infinito muta, infatti, il rapporto fra massimo e minimo, e con esso cambiano tutte le gerarchie tradizionali, anche a livello della lingua e della scrittura, riscattando – e assegnando compiti del tutto nuovi – alle «minuzzarie».
Quando Bruno scrive i suoi dialoghi, e insiste in modo sistematico sui minimi, sui frammenti, è questo complesso di motivi che ha in mente: nella sua scrittura cambia, in modo radicale, il rapporto fra dettaglio e figura, tra grandezza e verità. Vale qui lo stesso principio proclamato contemporaneamente sul piano cosmologico: gli astri più grandi non sono i più luminosi, perché astri piccoli possono essere più luminosi di astri grandi. I dialoghi di Bruno, per essere compresi, vanno letti in questa prospettiva, come egli dice, e richiede, in modo esplicito. Vanno letti, e compresi, «rompendo l’ossa e cavandone le midolla» (Cena de le Ceneri, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 10). E con «occhi di Linceo», sapendo che l’autore ha fatto giusto com’un pittore, al quale non basta far il semplice ritratto de l’istoria: ma anco, per empir il quadro, e conformarsi con l’arte a la natura, vi depinge de le pietre, di monti, de gli arbori, di fonti, di fiumi, di colline; e vi fa veder qua un regio palaggio, ivi una selva, là un straccio di cielo, in quel canto un mezo sol che nasce, e da passo in passo un ucello, un porco, un cervio, un asino, un cavallo: mentre basta di questo far veder una testa, di quello un corno, de l’altro un quarto di dietro, di costui le orecchie, di colui l’intiera descrizione; questo con un gesto et una mina, che non tiene quello et quell’altro; di sorte che con maggiore satisfazzione di chi remira e giudica, viene ad istoriar (come dicono) la figura (p. 11). E «questi Catoni saranno molto ciechi e pazzi, se non sapran scuoprir quel che è ascosto sotto questi Sileni», perché «in tutte parti è da mietere, e da disotterar cose di non mediocre importanza», e «cose minime e sordide son semi di cose grande et eccellenti» (pp. 14-15).
Coloro che hanno criticato la lingua – e la scrittura – di Bruno, o che oggi addirittura si propongono di ‘tradurre’ in italiano il suo volgare, non hanno capito da quali complesse radici fosse generata e quale profonda rivoluzione essa producesse sia sul piano della lingua che della filosofia.
Fonte: Bruno, Giordano Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Filosofia (2012) di Michele Ciliberto.
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DE L'INFINITO UNIVERSO E MONDI
Scritto in italiano volgare, pubblicato a Parigi nel 1584, questo libro è il primo adattamento in lingua moderna del testo in cui il Nolano spiega l'universo come un infinito di "campi immensi ed eterei", ciascuno abitato da mondi e astri che perseguono, come animali, il proprio sviluppo vitale. Difensore accanito del divino, Bruno si colloca al di là di Copernico e, superando le sue concezioni astronomiche, pone l'uno e il molteplice, Dio e la materia - sua creazione - come indissolubilmente legati, eterni e senza limiti, uniti dallo stesso desiderio di suscitare la vita. Scardinando il geocentrismo tolemaico e la cosmologia di Aristotele, che la chiesa fa sua, Bruno concepisce un universo senza limiti, popolato di innumerevoli mondi.
Per leggere il Libro DE L'INFINITO UNIVERSO ET MONDI clicca nel seguente Link:
http://www.ousia.it/content/Sezioni/Testi/BrunoDeInfinitoUniverso.pdf
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Per maggiori info su Giordano Bruno: http://lamisticadellanima.blogspot.it/2014/01/giordano-bruno.html
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"È dunque l'universo uno, infinito, immobile. Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l'atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo ed ottimo; il quale non deve posser essere compreso; e però infinibile e interminabile, e per tanto infinito e interminato, e per conseguenza immobile".
(GIORDANO BRUNO)
"L'universo è tutto centro e tutto circonferenza".
(GIORDANO BRUNO)
"L'universo immenso ed infinito è il composto che resulta da tal spacio e tanti compresi corpi".
(GIORDANO BRUNO)
"Tutte le cose dell'universo sono connesse e concatenate a tutte le altre".
(GIORDANO BRUNO)
MICHELE P.