venerdì 24 gennaio 2014

IL DONO DELLE LINGUE di René Guénon


Il dono delle lingue - tratto da Considerazioni sull'Iniziazione di René Guénon:


Alla questione dell’insegnamento iniziatico e dei suoi adattamenti si ricollega abbastanza direttamente quella di ciò che è chiamato il «dono delle lingue», il quale è spesso menzionato fra i privilegi dei veri Rosa-Croce, o, per parlare più esattamente (giacché il termine «privilegio» potrebbe troppo facilmente dar luogo a false interpretazioni), fra i loro segni caratteristici, ma che è inoltre tale da sopportare una applicazione molto più estesa di quella che è in tal modo fatta a una forma tradizionale particolare. 

                                                                                                      
A dire il vero, non sembra che sia mai stato spiegato molto chiaramente cosa si debba intendere con questa espressione dal punto di vista propriamente iniziatico, giacché molti di coloro che l’hanno usata sembrano averla interpretata quasi unicamente nel suo senso più letterale, cosa che è insufficiente, quantunque indubbiamente anche il senso letterale possa in certo qual modo essere giustificato.


In effetti, il possesso di certe chiavi del linguaggio può fornire, per comprendere e parlare le lingue più diverse, mezzi molto differenti da quelli di cui si dispone abitualmente; ed è ben certo che nell’ordine delle scienze tradizionali esiste quella che potrebbe essere chiamata una filologia sacra, totalmente diversa dalla filologia profana nata nell’Occidente moderno.


Tuttavia, pur accettando questa prima interpretazione e collocandola nel suo ambito proprio, che è quello delle applicazioni contingenti dell’esoterismo, è consentito prendere in considerazione soprattutto un suo senso simbolico, di ordine più elevato, che le si sovrappone senza affatto contraddirla, e inoltre si accorda con i dati iniziatici comuni a tutte le tradizioni, siano esse d’Oriente o d’Occidente.

Da questo punto di vista si può dire che chi possiede veramente il «dono delle lingue» è colui che parla a ciascuno il suo proprio linguaggio, nel senso che si esprime sempre in una forma appropriata ai modi di pensare degli uomini a cui si rivolge.

                                                   

È anche a questo che si fa allusione, in modo più esteriore, quando si dice che i Rosa-Croce dovevano adottare il costume e le abitudini dei paesi in cui si trovavano; e qualcuno aggiunge inoltre che essi dovevano assumere un nome nuovo tutte le volte che cambiavano paese, come se rivestissero in tale circostanza una nuova individualità.


Per cui il Rosa-Croce, in virtù del grado spirituale che aveva raggiunto, non era più legato in modo esclusivo a nessuna forma definita, né alle condizioni particolari di alcun luogo determinato[1], ed è per questo che era un «Cosmopolita» nel vero senso della parola[2].


Lo stesso insegnamento si ritrova nell’esoterismo islamico: Mohyddin ibn Arabi dice che «il vero saggio non si lega a nessuna credenza», perché è al di là di tutte le credenze particolari, avendo ottenuto la conoscenza di quello che è il loro principio comune; ma è precisamente per questa ragione che egli può, a seconda delle circostanze, parlare il linguaggio proprio a ciascuna credenza.


Checché possano pensare i profani, ciò non è il frutto né di «opportunismo», né di qualche sorta di dissimulazione; al contrario, si tratta della conseguenza necessaria di una conoscenza che è superiore a tutte le forme, ma che non può essere comunicata (nella misura in cui è comunicabile) se non attraverso forme, ciascuna delle quali, per ciò stesso che è un adattamento particolare, non può convenire a tutti gli uomini indistintamente.


Per capire di cosa si tratti, si può paragonare ciò alla traduzione di uno stesso pensiero in lingue differenti: il pensiero è evidentemente sempre lo stesso, perché esso è, in sé, indipendente da ogni espressione; ma tutte le volte che è espresso in un’altra lingua, esso diventa accessibile a uomini che, in assenza di tale traduzione, non avrebbero potuto conoscerlo; e del resto questo paragone è rigorosamente conforme al simbolismo del «dono delle lingue».


È arrivato a questo punto colui che ha raggiunto, attraverso una conoscenza diretta e profonda (e non soltanto teorica e verbale), il fondo identico di tutte le dottrine tradizionali; che ha trovato, ponendosi nel punto centrale dal quale esse sono emanate, la verità una che si nasconde sotto la diversità e la molteplicità delle forme esteriori.

                                                       

La differenza, in effetti, è sempre e soltanto nella forma e nell’apparenza; il fondo essenziale è dappertutto e sempre il medesimo, perché non c’è che una sola verità, anche se ha aspetti molteplici secondo i punti di vista più o meno speciali dai quali la si considera, e poiché, come dicono gli iniziati musulmani, «la dottrina dell’Unità è unica»[3]; ma una varietà di forme è necessaria per adattarsi alle condizioni mentali di questo o quel paese, di questa o quell’epoca, o, se si preferisce, per corrispondere ai diversi punti di vista specifici che sono determinati da tali condizioni; e coloro che si fermano alla forma vedono soprattutto le differenze, al punto di prenderle talvolta addirittura per opposizioni, mentre esse, al contrario, scompaiono per coloro che vedono al di là.


Costoro possono in seguito ridiscendere nella forma, ma senza esserne più assolutamente condizionati, senza che la loro conoscenza profonda ne sia modificata in alcun modo; essi possono, così come si traggono le conseguenze da un principio, realizzare procedendo dall’alto in basso, dall’interno all’esterno (ed è in questo che la vera sintesi è, come abbiamo spiegato in precedenza, tutto l’opposto del «sincretismo» volgare), tutti gli adattamenti della dottrina fondamentale.


È in questo modo che, per riprendere sempre lo stesso simbolismo, non essendo più costretti a parlare una lingua determinata, essi possono parlarle tutte, in quanto hanno preso conoscenza del principio da cui tutte le lingue derivano per adattamento; quelle che noi qui chiamiamo "lingue" sono tutte le forme tradizionali, religiose o d’altro genere, le quali in effetti non sono che adattamenti della grande Tradizione primordiale e universale, rivestimenti diversi della verità unica.


                                                     


Coloro che hanno oltrepassato tutte le forme particolari e hanno raggiunto l’universalità, e «sanno» in tal modo ciò che gli altri possono soltanto «credere», sono necessariamente «ortodossi» nei confronti di ogni tradizione regolare; e, nello stesso tempo, sono i soli che si possono dire pienamente ed effettivamente «cattolici» ("universali"), nel senso rigorosamente etimologico della parola[4], mentre gli altri non possono mai esserlo se non virtualmente, per una sorta di aspirazione che non ha ancora realizzato il suo oggetto, o di un movimento che, pur se diretto verso il centro, non è ancora riuscito realmente a raggiungerlo.


Coloro che sono passati al di là della forma sono, per ciò stesso, liberati dalle limitazioni inerenti alla condizione individuale dell’umanità ordinaria; coloro stessi che sono giunti soltanto al centro dello stato umano, senza aver ancora realizzato effettivamente gli stati superiori, sono per lo meno, in ogni caso, affrancati dalle limitazioni per le quali l’uomo decaduto da quello «stato primordiale» nel quale essi sono reintegrati è legato a una individualità, e tutte le forme della sfera umana hanno il loro principio immediato nel punto stesso in cui essi sono situati.


Per questo essi sono in grado, come dicevamo poco fa, di rivestire individualità diverse per adattarsi a tutte le circostanze; tali individualità, per loro, non hanno veramente più importanza di semplici vestimenti.


Si può da questo comprendere cosa significhi veramente il cambiamento di nome, e ciò si ricollega naturalmente a quanto abbiamo esposto in precedenza riguardo al nomi iniziatici; negli stessi ordini monastici, la sua ragion d’essere, tutto sommato, in fondo non è diversa, giacché anche quivi l’individualità profana[5] deve scomparire per far posto a un essere nuovo, e anche quando il simbolismo non è più interamente compreso nel suo senso profondo, esso conserva tuttavia ancora, di per sé, una certa efficacia.

                                                

Se si capiscono queste poche indicazioni si capirà anche perché i veri Rosa-Croce non abbiano mai potuto costituire qualcosa che assomigli anche solo da lontano a una «società», e neppure una qualsiasi organizzazione esteriore; essi hanno indubbiamente potuto, come fanno ancora in Oriente – e soprattutto in Estremo Oriente –, iniziati d’un grado comparabile al loro, ispirare più o meno direttamente, e in qualche modo invisibilmente, organizzazioni esteriori formate temporaneamente in vista di questo o quello scopo speciale e definito; ma, benché tali organizzazioni possano per questa ragione esser dette «rosacrociane», essi non vi si legavano in alcun modo e, salvo forse in qualche caso del tutto eccezionale, non vi ricoprivano nessun ruolo apparente.


Quelli che a partire dal secolo XIV sono stati in Occidente chiamati i Rosa-Croce, e che hanno ricevuto altre denominazioni in altri tempi e in altri luoghi, giacché il nome qui ha un valore puramente simbolico e deve esso stesso adattarsi alle circostanze, non sono una qualsiasi organizzazione; essi sono la collettività degli esseri che sono pervenuti a uno stesso stato superiore a quello dell’umanità ordinaria, a uno stesso grado di iniziazione effettiva, della quale abbiamo testé indicato uno degli aspetti essenziali, e i quali possiedono inoltre gli stessi caratteri interiori, ciò che per essi basta per riconoscersi tra di loro senza aver bisogno di nessun segno esteriore.


Per questo essi non hanno altro luogo di riunione se non «il Tempio dello Spirito Santo, che è dappertutto», per cui le descrizioni che talvolta ne sono state fatte possono essere intese soltanto simbolicamente; ed è anche questa la ragione per cui essi rimangono necessariamente sconosciuti ai profani in mezzo ai quali vivono, a loro esteriormente simili, anche se completamente diversi, perché i loro soli segni distintivi sono puramente interiori e possono essere percepiti soltanto da coloro che hanno raggiunto lo stesso sviluppo spirituale, di modo che il loro influsso, che è collegato più a un’«azione di presenza» che non a una qualsiasi attività esteriore, si esercita per vie che sono totalmente incomprensibili agli uomini comuni. 

                                                 

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NOTE

[1] Potremmo aggiungere: né ad alcuna epoca particolare; ma questo, che si riferisce direttamente al carattere di «longevità», richiederebbe, per essere ben capito, spiegazioni più diffuse di quelle che possono trovar luogo qui; daremo però più avanti alcune indicazioni sulla questione della «longevità».


[2] Si sa che il nome «Cosmopolita» è servito da firma «coperta» a diversi personaggi che, quantunque non fossero essi stessi dei veri Rosa-Croce, nonostante ciò sembrano veramente essere stati utilizzati come porta-parola da questi ultimi nella trasmissione esteriore di certi insegnamenti, e potevano di conseguenza identificarsi a essi in una certa misura, in quanto sostenevano questa particolare funzione.


[3] Et-tawhîdu wâhidun.


[4] La parola «cattolico», intesa in tal modo nella sua accezione originaria, torna frequentemente negli scritti di ispirazione più o meno direttamente rosacrociana.


[5] A pieno rigore, qui occorrerebbe piuttosto dire la modalità profana dell’individualità, poiché è evidente che, nella sfera exoterica (come qui) il cambiamento non può essere abbastanza profondo da riferirsi a qualcosa di più che non a semplici modalità.


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MICHELE P.


                                                       

ROSA-CROCE E ROSICRUCIANI di RENE' GUENON











TRATTO DAL LIBRO “CONSIDERAZIONI SULL’INIZIAZIONE” di RENE’ GUENON  



ROSA-CROCE E ROSICRUCIANI

Poiché abbiamo parlato dei Rosa-Croce, non sarà forse inutile, sebbene questo soggetto si riferisca più ad un caso particolare che all'iniziazione in generale, aggiungere a tal proposito alcune precisazioni, questo nome di Rosa-Croce essendo ai nostri giorni usato in modo vago  spesso abusivo, ed indistintamente applicato ai personaggi più differenti, fra cui senza dubbio pochissimi ne avrebbero realmente diritto.

Ad evitare tutte queste confusioni, il meglio sarebbe di stabilire una netta distinzione fra Rosa-Croce e Rosicruciani; infatti, quest'ultimo termine può senza inconvenienti ricevere una estensione più larga del primo; ed è probabile che la maggioranza dei pretesi Rosa-Croce, comunemente designati per tali, fossero in realtà soltanto dei Rosicruciani.

Alfine di comprendere la utilità e l'importanza di questa distinzione, bisogna ricordare in primo luogo che, secondo quanto abbiamo detto in precedenza, i veri Rosa-Croce mai costituirono una organizzazione con forme esteriori definite, e che vi furono tuttavia, a partire almeno dai principii del XVII secolo, numerose associazioni da potersi qualificare come rosicruciane, il clic non significa che i loro membri fossero dei Rosa-Croce; é anzi certo che non lo erano in modo alcuno, per il semplice fatto che facevano parte di tali associazioni, il che può sembrare paradossale e a prima vista perfino contraddittorio, ma è tuttavia facilmente comprensibile alla luce delle considerazioni precedentemente esposte.










La distinzione indicata è lungi dal ridursi ad una semplice questione di terminologia, e si riattacca in realtà a qualche cosa di un ordine molto più profondo, poiché il termine Rosa- Croce è propriamente, come abbiamo spiegato, la designazione di un grado iniziatico effettivo, vale a dire di un certo stato spirituale il cui possesso evidentemente non è legato in modo necessario al fatto di appartenere ad una certa organizzazione definita.

Quello che esso, rappresenta è ciò che può chiamarsi la perfezione dello stato umano, poichè il simbolo stesso della Rosa-Croce figura, per i due elementi da cui è composto, la reintegrazione dell'essere al centro dì questo stato e la piena espansione delle sue possibilità individuali a partire da questo centro; esso designa dunque molto esattamente la restaurazione dello « stato primordiale », o, cd è lo stesso, il compimento dell'iniziazione ai « piccoli misteri ».

D'altra parte, dal punto di vista che può dirsi « storico », bisogna tener conto del fatto che questa designazione di Rosa-Croce, legata esplicitamente all'uso di un certo simbolismo, non é stata usata che in certe circostanze determinate di tempi e di luoghi, al di fuori delle quali sarebbe illegittimo applicarla; si può dire che coloro che possedevano il grado considerato siano apparsi come Rosa-Croce in queste circostanze soltanto e per ragioni contingenti; essi, d'altra parte, sono potuti apparire sotto nomi ed aspetti diversi in altre circostanze. Beninteso, un tal fatto non vuol dire che il simbolo stesso cui questo nome si riferisce non possa essere molto più antico dell'uso fattone in tal maniera, ed anzi, come per ogni simbolo veramente tradizionale, sarebbe indubbiamente del tutto vano ricercargli una origine definita.

Vogliamo dire soltanto che il nome ricavato dal simbolo non é stato applicato ad un grado iniziatico che a partire dal XIV secolo, ed unicamente nel mondo occidentale; esso non si applica dunque che in rapporto ad una certa forma tradizionale, vale a dire a quella dell'esoterismo cristiano, o, più precisamente ancora, dell'ermetismo cristiano; ritorneremo in seguito su ciò che bisogna intendere esattamente col termine « ermetismo ».








Quel che abbiamo detto è indicato dalla « leggenda » stessa di Christian Rosenkreutz, il cui nome é d'altronde puramente simbolico; é assai dubbio se bisogna scorgervi un personaggio storico, malgrado ciò che abbiano potuto pensarne alcuni, ma questo nome appare piuttosto come la rappresentazione di una « entità collettiva » .

Il significato generale della «leggenda » di questo supposto fondatore, e in particolare dei viaggi a lui attribuiti , sembra essere il seguente: dopo la distruzione dell'Ordine del Tempio, gli iniziati all'esoterismo cristiano si riorganizzarono, d'accordo con gli iniziati all'esoterismo islamico, per mantenere, nella misura del possibile, il legame apparentemente rotto da questa distruzione; ma una tale riorganizzazione dovette farsi in modo più nascosto, in qualche maniera invisibile, e senza prendere appoggio in una istituzione esteriormente conosciuta, che, come tale, avrebbe potuto essere distrutta ancora una volta.

I veri Rosa- Croce furono propriamente gli ispiratori di questa riorganizzazione, o, se si vuole, furono i possessori del grado iniziatico di cui abbiamo parlato, considerati specialmente in quanto rappresentarono questa parte, che sì continuò tino al momento in cuì, in seguito ad altri avvenimenti storici, il legame tradizionale considerato fu definitivamente rotto per il mondo occidentale, il che si produsse durante il XVII secolo.





È detto che i veri Rosa- Croce si ritirarono allora in Oriente, vale a dire da quel momento non vi fu più in Occidente alcuna iniziazione atta a far raggiungere effettivamente questo grado; in conseguenza, l'azione che vi si era esercitata fino ad allora, per il mantenimento dell'insegnamento tradizionale corrispondente, cessò di manifestarsi almeno in modo regolare e normale.

A proposito della questione di sapere chi fossero i veri Rosa-Croce, e di dire con certezza se tale o tal'altro personaggio fosse uno di essi, la cosa appare del tutto impossibile, per il fatto che si tratta essenzialmente di uno stato spirituale, dunque puramente interiore; sarebbe quindi molto imprudente voler giudicare secondo segni esteriori qualsiasi- Altresì, in ragione della natura della loro parte, questi Rosa-Croce non potettero lasciare come tali alcuna traccia visibile nella storia profana; dunque, anche se i loro nomi potessero essere conosciuti, non farebbero apprendere indubbiamente nulla; a tal riguardo, rinviamo a quanto abbiamo già detto sui cambiamenti di nomi, il che spiega sufficientemente ciò di cui in realtà si può trattare.

A proposito dei personaggi, i cui nomi sono conosciuti, specialmente come quelli di autori di tale o tal'altro scritto, personaggi che sono comunemente designati come Rosa-Croce, è probabile che in molti casi fossero influenzati o ispirati più o meno direttamente dai Rosa-Croce cui servirono in qualche modo da portaparola, il che esprimeremo dicendo che essi furono soltanto dei Rosicruciani, abbiano o meno appartenuto a qualcuno dei gruppi cui si può attribuire la medesima denominazione.


Se si riscontrasse invece che, eccezionalmente e quasi accidentalmente, un vero Rosa-Croce abbia rappresentato una parte negli avvenimenti esteriori, sarebbe in un certo senso malgrado la sua qualità piuttosto che a causa di questa; in tal caso, gli storici possono essere ben lontani dal supporre una siffatta qualità, tanto le due cose appartengono a dominii differenti.

Quanto detto é di certo poco soddisfacente per i curiosi, ma essi debbono rassegnarvisi; molte cose sfuggono così ai mezzi d'investigazione della storia profana, mezzi che necessariamente, per la loro stessa natura, permettono di afferrare soltanto l'« esterno» degli avvenimenti, se possiamo esprimerci in tal modo. Bisogna altresì citare un'altra ragione per cui i veri Rosa-Croce dovettero restare sempre sconosciuti: cd è che nessuno di loro potette mai affermarsi tale, al pari del Sufi autentico che, nell'iniziazione islamica, non può avvalersi di questo titolo.







Si tratta anzi di una similitudine particolarmente interessante, sebbene in vero non vi sia equivalenza fra le due denominazioni, poiché ciò che nel nome di Sufi è implicato in realtà è di un ordine più elevato di ciò che indica il nome di Rosa-Croce e si riferisce a possibilità le quali oltrepassano quelle dello stato umano, anche se considerato nella sua perfezione; questo nome di Sufi dovrebbe anzi, a stretto rigor di termini, essere esclusivamente riservato all'essere pervenuto alla realizzazione dell'o Identità Suprema », vale a dire allo scopo ultimo di ogni iniziazione; ma é evidente che un tale essere possiede a fortiori il grado che fa il Rosa-Croce e può all'occorrenza adempiere le funzioni corrispondenti.

D'altra parte, si fa comunemente del nome di Sufi, lo stesso abuso di quello di Rosa-Croce, fino ad applicarlo talvolta a coloro che sono soltanto sulla via dell'iniziazione effettiva, senza aver nemmeno raggiunto i primi gradi di quest'ultima; e può rilevarsi a tal proposito che una tale illegittima estensione è data non meno correntemente al nome di Yogi in relazione alla tradizione indù; dunque, questa parola, che a sua volta designa proprio colui clic ha raggiunto lo scopo supremo e che equivale in tal modo esattamente a Sufi, finisce per essere applicata a coloro che sono soltanto agli stadii preliminari e anche alla preparazione più esteriore.


Non solo in un caso simile, ma anche nel caso di colui che sia giunto ai gradi più elevati, senza pertanto essere pervenuto al termine finale, :la designazione che propriamente conviene è quella di mutaatewuf; e, come il Sufi stesso non é contrassegnato da alcuna distinzione esteriore, questa medesima designazione sarà anche la sola che egli possa prendere o accettare, non in virtù di considerazioni puramente umane, come la prudenza o l'umiltà, ma perché il suo stato spirituale costituisce veramente un segreto incomunicabile .


Una distinzione analoga, in un ordine più ristretto (non oltrepassando i limiti dello stato umano), si può esprimere con i due termini di Rosa-Croce e Rosicruciano, nel senso che quest'ultimo può designare ogni aspirante allo stato di Rosa-Croce, a qualsiasi grado sia effettivamente pervenuto, ed anche se non abbia ricevuto che una iniziazione semplicemente virtuale nella forma cui conviene propriamente di fatto questa designazione.

D'altra parte, da quanto abbiamo detto, si può ricavare una specie di criterium negativo nel senso che, se qualcuno da se stesso si è dichiarato Rosa-Croce o si può affermare, senza nemmeno aver bisogno di esaminare le cose più profondamente, che in realtà non lo era di certo.





Un altro criterium negativo risulta dal fatto che i Rosa-Croce non si legarono mai ad alcuna organizzazione esteriore; se qualcuno é conosciuto come membro di una tale organizzazione, si può parimenti affermare che, almeno fin quando ne fece attivamente parte, non fu un vero Rosa-Croce.

Vi é da rilevare d'altronde che le organizzazioni di questo genere non portarono il titolo di Rosa-Croce che molto tardi, poichè non lo si vide apparire, come dicevamo in precedenza, che al principio del XVII secolo, vale a dire poco prima del momento in cui i veri Rosa-Croce si ritirarono dall'Occidente; da parecchi indizii, é chiaro che quelle organizzazioni che allora si fecero conoscere sotto questo titolo erano già più o meno deviate, o in ogni caso molto lontane dalla fonte originale.

A maggior ragione fu così per le organizzazioni che si costituirono ancora più tardi con lo stesso vocabolo; indubbiamente, la maggioranza di esse non avrebbe potuto rivendicare, in riguardo ai Rosa- Croce, alcuna autentica e regolare filiazione, per quanto indiretta possa pensarsi ; naturalmente, non parliamo delle molteplici formazioni pseudo-iniziatiche contemporanee che di rosicruciano non hanno che il nome usurpato; esse infatti non posseggono la minima traccia di una qualsiasi dottrina tradizionale, ed hanno semplicemente adottato, ad iniziativa del tutto individuale dei loro fondatori, un simbolo che ognuno interpreta secondo la propria fantasia, ignorandone il vero significato, che sfugge tanto completamente a questi pretesi Rosicruciani quanto al primo profano venuto.


Vi é ancora un punto da precisare maggiormente: abbiamo detto che dovette esservi, all'origine del Rosicrucianesimo, una collaborazione fra iniziati ai due esoterismi cristiano e islamico; questa collaborazione dovette anche continuarsi in seguito, poiché si trattava precisamente di mantenere il legame fra le iniziazioni di Oriente e di Occidente.

Vi é anche di più: é possibile che gli stessi personaggi, venuti dal Cristianesimo o dall'Islamismo, sian stati, se vissero in Oriente o in Occidente (e le costanti allusioni ai loro viaggi, a parte ogni simbolismo, fanno pensare che dovette essere il caso di molti di essi), in pari tempo Rosa- Croce e Sufi (o mutacawwufin dei gradi superiori); lo stato spirituale raggiunto implicava infatti che essi fossero oltre le differenze che esistono fra le forme esteriori e che non contaminano menomamente l'unità essenziale e fondamentale della dottrina tradizionale.

Ben inteso, è non di meno conveniente mantenere, tra Taçawwuf e Rosicrucianesimo, la distinzione delle due differenti forme di insegnamento tradizionale; e i Rosicruciani, discepoli più o meno diretti dei Rosa-Croce, sono unica mente coloro che seguono la via speciale dell'ermetismo cristiano; ma non può esservi alcuna organizzazione iniziatica, pienamente degna di questo nome e possedente la coscienza effettiva del suo scopo, che non abbia alla sommità della sua gerarchia esseri giunti oltre la diversità delle apparenze formali.

Questi ultimi potranno, secondo le circostanze, apparire come Rosicruciani, come mwaçawwufin, od anche sotto altri aspetti; e sono essi veramente il legame vivente fra tutte le tradizioni, poiché, per la loro coscienza dell'unità, partecipano effettivamente alla grande Tradizione primordiale, da cui tutte le altre sono derivate per adattamento ai tempi e ai lunghi, e che é una come la stessa Verità.

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Per maggiori Info. leggere anche questo Post:
http://lamisticadellanima.blogspot.it/2014/01/qualche-considerazione-sullermetismo.html

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ROSA-CROCE - STORIA E DOTTRINA



MICHELE P.





QUALCHE CONSIDERAZIONE SULL'ERMETISMO - TRASMUTAZIONE E TRASFORMAZIONE di RENE' GUENON
















ECCOVI DUE SPLENDIDI CAPITOLI TRATTI DAL LIBRO DI RENE' GUENON "CONSIDERAZIONI SULL'INIZIAZIONE".

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QUALCHE CONSIDERAZIONE SULL'ERMETISMO


Abbiamo detto in precedenza che i Rosa+Croce erano propriamente esseri pervenuti al compimento effettivo dei « piccoli misteri », e che l'iniziazione rosicruciana, da essi ispirata, era una forma particolare riattaccantesi all’ermetismo cristiano; riavvicinando un tale fatto a ciò che abbiamo spiegato ultimamente, si deve poter già comprendere come l'ermetismo, in modo generale, appartenga al dominio di ciò che è designato con il termine di «iniziazione reale/regale».







Pertanto, sarà bene a tal proposito dare ancora qualche precisazione, poichè, anche su questo soggetto, si sono introdotte molte confusioni, e il termine stesso di « ermetismo » è usato da parecchi nostri contemporanei assai vagamente e indecisamente; non vogliamo alludere in tal modo soltanto agli occultisti, per cui la cosa è troppo evidente, ma vi sono altri che, pur studiando la questione in una maniera più seria, sembrano, forse a causa di certe idee preconcette, non rendersi conto molto esattamente di che cosa si tratta in realtà.


Bisogna rilevare in primo luogo che questa parola « ermetismo» indica trattarsi di una tradizione di origine egiziana, rivestita in seguito di una forma ellenizzata, senza dubbio all'epoca alessandrina, e trasmessa sotto questa forma, nel medio evo, ugualmente al mondo islamico e dal mondo cristiano, e, aggiungiamo noi, al secondo in gran parte per l'intermediario del primo, come provano i numerosi termini arabi o arabizzati adottati dagli ermetisti europei, a cominciare dal termine stesso d'« alchimia » (el-kimya).


Sarebbe dunque del tutto abusivo estendere questa designazione ad altre forme tradizionali, come sarebbe abusivo ad esempio il voler chiamare « Kabbala » qualche cosa che sia diverso dall'esoterismo ebraico; ben'inteso, non significa che non ne debbano esistere certi equivalenti altrove, tanto vero ché questa scienza tradizionale dell'alchimia ha la sua esatta corrispondenza in dottrine come quelle dell'India, del Thibet e della Cina, quantunque con modi d'espressione e metodi di realizzazione naturalmente abbastanza diversi; ma, quando si pronunzia il nome di « ermetismo », si specifica in tal modo una forma nettamente determinata, la cui provenienza non può essere che greco-egiziana.

In effetti, la dottrina così designata è riferita ad Ermete, essendo quest'ultimo considerato dai Greci identico al Thoth egiziano; il che presenta d'altronde questa dottrina come essenzialmente derivata da un insegnamento sacerdotale, poichè Thoth, nella sua parte di conservatore e di trasmettitore della tradizione, non è che la stessa rappresentazione dell'antico sacerdozio egiziano, o meglio, per parlare più esattamente, del principio d'ispirazione « sopra-umana » da cui proveniva a, quest'ultimo la propria autorità e nel cui nome formulava e comunicava la conoscenza iniziatica.





Non bisognerebbe rilevare la minima contraddizione nel fatto che questa dottrina appartenga propriamente al dominio dell'iniziazione reale, poichè dev'essere evidente che, in ogni tradizione regolare e completa, è il sacerdozio che, in virtù della sua funzione essenziale d'insegnamento, conferisce ugualmente le due iniziazioni, direttamente o indirettamente, e che assicura in tal modo la legittimità effettiva dell'iniziazione reale stessa, ricollegandola al suo principio superiore, nella stessa maniera del potere temporale che può ricevere la sua legittimità soltanto da una consacrazione avuta dall'autorità spirituale. Stabilito quanto precede, la principale questione è la seguente: ciò che si è mantenuto sotto questo nome di « ermetismo » può essere considerato come costituente una dottrina tradizionale in se stessa completa?


La risposta non può essere che negativa, poichè non si tratta strettamente che di una conoscenza d'ordine non metafisico, ma soltanto cosmologico, intendendo d'altronde questo termine nella sua duplice applicazione « macrocosmica » e « microcosmica », essendo evidente che, in ogni concezione tradizionale, vi è sempre una stretta corrispondenza fra questi due punti di vista.











È dunque inammissibile che l'ermetismo, nel significato che questo termine ha preso fin dall'epoca alessandrina e conservato costantemente da allora, rappresenti, fosse pure alla stregua di « riadattamento », l'integralità della tradizione egiziana, tanto più che ciò sarebbe nettamente contraddittorio con la parte essenziale rappresentata in quest'ultima dal sacerdozio e da noi ricordata; malgrado che in verità il punto di vista cosmologico sembri esservi stato particolarmente sviluppato, almeno nella misura in cui è attualmente ancora possibile saperne qualche cosa di preciso, e che sia in ogni caso ciò che vi è di più appariscente in tutte le vestige sussistenti, si tratti di testi o di monumenti, non bisogna dimenticare che può essere soltanto un punto di vista secondario e contingente, una applicazione della dottrina principiale alla conoscenza del cosiddetto « mondo intermediario », vale a dire il dominio della manifestazione sottile dove si situano i prolungamenti extra-corporei dell'individualità umana o le possibilità stesse il cui sviluppo concerne propriamente i « piccoli misteri ».


Potrebbe essere interessante, ma senza dubbio molto difficile, ricercare come questa parte della tradizione egiziana abbia potuto trovarsi in qualche modo isolata e conservarsi in una maniera apparentemente indipendente, per poi incorporarsi all'esoterismo islamico e all'esoterismo cristiano del medio evo (il che non l'avrebbe d'altronde potuto fare una dottrina completa) al punto da diventare veramente parte integrante dell'uno e dell'altro, e da fornire ad entrambi tutto un simbolismo che, per una trasposizione conveniente, è potuto qualche volta servire anche da veicolo per verità di un ordine più elevato .


Non vogliamo qui entrare in queste considerazioni storiche molto complesse; comunque sia, a proposito di tale particolare questione, ricorderemo che le scienze dell'ordine cosmologico sono effettivamente quelle che nelle civiltà tradizionali sono state soprattutto l'appannaggio degli Kshatriya o di loro equivalenti, mentre la metafisica pura era propriamente, come abbiamo detto, l'appannaggio dei Brahmana.


Ed è per ciò che, per un effetto della rivolta degli Kshatriya contro l'autorità spirituale dei Bràhmana, si sono potute vedere qualche volta costituirsi correnti tradizionali incomplete, ridotte a queste sole scienze separate dal loro principio trascendente, ed anche, come l'indicammo precedentemente, deviate in senso «naturalista», a causa di negazione della metafisica e disconoscimento del carattere subordinato della scienza « fisica », nonchè (le due cose essendo strettamente legate, come debbono permettere di comprendere sufficientemente le spiegazioni da noi date) dell'origine essenzialmente sacerdotale di ogni insegnamento iniziatico, anche quello destinato particolarmente ad uso degli Kshatriya.


Non si può sicuramente dire che l'ermetismo costituisca in se stesso una tale deviazione o che implichi qualche cosa d'illegittimo, il che avrebbe reso evidentemente impossibile la sua incorporazione in forme tradizionali ortodosse; ma bisogna pur riconoscere che vi si può prestare abbastanza facilmente a causa della sua natura stessa, per poco che si presentino circostanze favorevoli a questa deviazione, e tale è del resto più generalmente il pericolo di tutte le scienze tradizionali quando sono coltivate in qualche modo per se stesse, la qual cosa espone a perdere di vista il loro collegamento all'ordine principiale.











L'alchimia, che si potrebbe definire per così dire come la « tecnica » dell'ermetismo, è realmente un'« arte reale », se in tal modo s'intende una maniera d'iniziazione specialmente appropriata alla natura degli Kshatriya; ma questo stesso fatto ne segna precisamente il posto esatto nell'insieme di una tradizione regolarmente costituita, e altresì non bisogna confondere i mezzi di una realizzazione iniziatica, qualunque essi possano essere, con lo scopo suo, che in definitiva è sempre di pura conoscenza.


D'un altro lato, bisogna particolarmente diffidare di una certa assimilazione che si vuole a volte stabilire fra l'ermetismo e la « magia »; anche se si volesse allora prendere quest'ultima in un senso abbastanza differente da quello in cui la si intende ordinariamente, vi sarebbe pure molto da temere che questo semplice fatto, insomma corrispondente ad un abuso di linguaggio, non possa provocare che confusioni piuttosto incresciose. La magia, nel suo significato proprio, non è infatti, l'abbiamo ampiamente spiegato, che una delle applicazioni inferiori della conoscenza tradizionale e non vediamo come possa esservi il minimo vantaggio ad invocarne l'idea quando in realtà si tratta di cose che, anche se ancora contingenti, sono nondimeno di un livello notevolmente più elevato.

Del resto, può darsi che a tal proposito non vi sia soltanto una questione di terminologia male applicata: questa parola « magia » esercita su alcuni alla nostra epoca uno strano fascino, e, come abbiamo già' rilevato, la preponderanza accordata ad un tale punto di vista, non fosse che soltanto in intenzione, è anche legata all'alterazione delle scienze tradizionali separate dal loro principio metafisico; è questo indubbiamente lo scoglio principale contro cui rischia di urtarsi ogni tentativo di ricostituzione o di restaurazione di tali scienze, se non si inizia da ciò che è veramente l'inizio sotto ogni rapporto, vale a dire dallo stesso principio, che è anche il fine in vista del quale tutto il resto deve essere normalmente ordinato.

Un altro punto, su cui è il caso d'insistere, è quello della natura puramente « interiore » della vera alchimia, propriamente d'ordine psichico quando la si prende nella sua più immediata applicazione, e di ordine spirituale quando la si traspone nel suo significato superiore; ed è una tal cosa, in realtà, che ne costituisce tutto il valore dal punto di vista iniziatico.









Questa alchimia non ha dunque assolutamente nulla da vedere con le operazioni materiali di una « chimica » qualsiasi, nel senso attuale del termine; quasi tutti i moderni hanno stranamente equivocato a tal proposito, sia coloro che hanno voluto porsi come difensori dell'alchimia e sia coloro che invece hanno voluto porsi come suoi detrattori; siffatto equivoco è meno scusabile nei primi che nei secondi, i quali almeno non hanno certo mai preteso di possedere una qualsiasi conoscenza tradizionale.

Pertanto, è assai facile vedere in quali termini gli antichi ermetisti parlino dei « soffiatori a e dei « bruciatori di carbone », nei quali bisogna riconoscere i veri precursori dei chimici attuali, per quanto la cosa sia poco lusinghiera per questi ultimi; e, ancora al XVIII secolo, un alchimista come il Pernety non manca di sottolineare ad ogni occasione la differenza fra la « filosofia ermetica » e la « chimica volgare ».


In tal modo, come già in molte altre occasioni abbiamo detto mostrando il carattere di « residuo » che hanno le scienze profane in rapporto alle scienze tradizionali (ma si tratta di cose tanto estranee alla mentalità attuale che non è mai troppo insistervi), a dar nascita alla chimica moderna non è stata l'alchimia, con cui essa non ha insomma alcun rapporto reale (come non ne ha d'altronde l'« iperchimia », immaginata da qualche occultista contemporaneo) ; ne è stata soltanto una deformazione o una deviazione, provocata dall'incomprensione di coloro che, profani sprovvisti di ogni qualificazione iniziatica e incapaci di penetrare in una misura qualsiasi il vero significato dei simboli, presero tutto alla lettera, secondo l'accezione più esteriore e più volgare dei termini usati, e, credendo in seguito non trattarsi che di operazioni materiali, si lanciarono in una sperimentazione più o meno disordinata, e in ogni caso assai poco degna d'interesse sotto parecchi riguardi.

Ugualmente nel mondo arabo, l'alchimia materiale è stata sempre molto poco considerata, mentre si aveva un grande rispetto per l'alchimia « interiore » e spirituale, spesso designata col nome di kimyà es-saddah o « alchimia della felicità».











Non bisogna pensare d'altronde che si debba perciò negare la possibilità delle trasmutazioni metalliche che rappresentano l'alchimia agli occhi del volgare; ma bisogna ridurle alla loro giusta importanza, che insomma non è maggiore di quella di una qualsiasi esperienza « scientifica », e non confondere cose che sono di ordine totalmente diverso; a priori, non si vede nemmeno per qual motivo non potrebbe accadere che tali trasmutazioni siano realizzate da procedimenti appartenenti semplicemente alla chimica profana (e in fondo l'« iperchimia » cui alludemmo non è che un tentativo del genere).

Pertanto, vi è un altro aspetto della questione: l'essere, giunto alla realizzazione di certi stati interiori, può, in virtù della relazione analogica del « microcosmo » col macrocosmo », produrre esteriormente effetti corrispondenti; è dunque perfettamente ammissibile che colui che è pervenuto ad un certo grado nella pratica dell'alchimia interiore » sia capace per questo stesso fatto di compiere trasmutazioni metalliche o altre cose del medesimo ordine, ma alla stregua di conseguenze del tutto accidentali, e senza ricorrere ad alcun procedimento della pseudo-alchimia materiale, ma unicamente per una specie di proiezione esteriore delle energie che porta in se stesso.


Vi è d'altronde anche qui da farsi una distinzione: può non trattarsi in ciò che di una azione di ordine psichico. vale a dire della messa in opera d'influenze sottili appartenenti al dominio dell'individualità umana, ed allora si tratta sempre dell'alchimia materiale, se si vuole, ma operante con mezzi del tutto diversi da quelli della pseudo-alchimia, che si riferiscono esclusivamente al dominio corporeo; oppure, per un essere che abbia raggiunto un grado di realizzazione più elevato, può trattarsi di una azione esteriore di vere influenze spirituali, come quella producentesi nei « miracoli » delle religioni e di cui abbiamo precedentemente parlato.

Fra questi due casi, vi è una differenza paragonabile a quella che separa la « teurgia » dalla magia (quantunque, ripetiamolo, non indichiamo ciò che alla stregua di similitudine, poichè qui non si tratta propriamente di magia), questa differenza essendo insomma quella stessa dell'ordine spirituale e dell'ordine psichico; se gli effetti apparenti sono a volta gli stessi da una parte e dall'altra, le cause che li producono sono nondimeno totalmente e profondamente diverse.


Aggiungiamo d'altronde che coloro che posseggono realmente questi poteri  si astengono scrupolosamente dal farne mostra per meravigliare la gente, ed anzi generalmente mai ne fanno uso, per lo meno al di fuori di certe particolari circostanze, quando il loro esercizio si trovi legittimato da altre considerazioni.

Comunque, ciò che non bisogna mai perdere di vista, e che è alla base stessa di ogni insegnamento veramente iniziatico, è che ogni realizzazione degna di questo nome è di ordine essenzialmente interiore, anche se è suscettibile di avere all'esterno ripercussioni di qualsiasi genere.


L'uomo può trovarne i principii soltanto in se stesso e lo può perchè porta in sè la corrispondenza di tutto ciò che esiste; infatti, non bisogna dimenticare che, secondo una formula dell'esoterismo islamico, « l'uomo è il simbolo dell'Esistenza universale »; e se perviene a penetrare fino al centro del suo proprio essere, egli raggiunge la conoscenza totale, con tutto ciò che implica per sovrappiù:

« Colui che conosce il suo Sè conosce il suo Signore »  ed allora conosce tutte le cose nella suprema unità del Principio stesso in cui ogni realtà è « eminentemente » contenuta.


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TRASMUTAZIONE E TRASFORMAZIONE




Un'altra questione riferentesi anche direttamente all'ermetismo è quella della « longevità », che è stata considerata come uno dei caratteri dei veri Rosa+Croce, e di cui si è d'altronde parlato in una forma o nell'altra in tutte le tradizioni; questa « longevità », il cui conseguimento è generalmente considerato come uno degli scopi dell'alchimia e che è implicata nel compimento stesso della « Grande Opera », ha parecchi significati che bisogna molto accuratamente distinguere, poichè in realtà si situano a livelli molto differenti fra le possibilità dell'essere.


Il significato più immediato, ma che in vero è lungi dall'essere il più importante, è evidentemente quello di un prolungamento della vita corporea; e, per comprenderne la possibilità, è d'uopo riferirsi all'insegnamento secondo cui la durata della vita umana è andata diminuendo progressivamente durante le diverse fasi del ciclo percorso dalla presente umanità terrestre dalle sue origini all'epoca attuale.


Se si considera che il processo iniziatico, nella sua parte riferentesi ai « piccoli misteri », fa 'risalire in qualche modo all'uomo il corso di questo ciclo, come già abbiamo indicato, sì da condurlo, a mano a mano, dallo stato presente fino allo « stato primordiale », questo processo deve fargli acquisire per tal motivo ad ogni tappa tutte le possibilità dello stato corrispondente, compresa la possibilità di una vita più lunga di quella dell'uomo attuale.


Che una tale possibilità sia effettivamente realizzata o meno, è un'altra questione; e, infatti, si dice che colui che è diventato capace di prolungare in tal modo la propria vita generalmente non lo faccia, a meno di avere per farlo ragioni di un ordine particolarissimo, la cosa non avendo per lui in realtà alcuna importanza (al pari delle trasmutazioni metalliche ed altri effetti di questo genere per colui che è capace di realizzarli, il che tutto sommato si riferisce allo stesso ordine di possibilità); ed anzi egli può aver vantaggio a non lasciarsi attardare in tal modo in queste tappe che sono sempre soltanto preliminari e molto lontane dal vero scopo, la messa in opera di tali risultati secondarii e contingenti non potendo ad ogni grado che distrarre dall'essenziale.


D'altra parte, il che può ancora contribuire a ridurre alla giusta importanza la possibilità cui trattasi, è pure asserito da diverse tradizioni che la durata della vita corporea non può in alcun caso oltrepassare un massimo di mille anni; importa poco d'altronde che questo numero debba essere preso letteralmente o abbia piuttosto un valore simbolico, poichè l'importante è che questa durata sia in ogni caso limitata; per conseguenza, la ricerca di una pretesa « immortalità corporea » non può essere che perfettamente illusoria .











La ragione di questa limitazione è insomma abbastanza facilmente comprensibile: ogni vita umana, costituendo in se stessa un ciclo analogo a quello dell'umanità presa nel suo insieme, il tempo si  « contrae » in qualche modo per ogni essere a misura che esaurisce le possibilità dello stato corporeo ; deve dunque esservi necessariamente un momento in cui sarà per così dire ridotto ad un punto, ed allora l'essere non troverà più letteralmente in questo mondo alcuna durata in cui gli sia possibile vivere, sicchè non vi sarà per lui altra via che quella di passare ad un altro stato, sottomesso a condizioni differenti da quelle dell'esistenza corporea, anche se questo stato in realtà non è ancora che una delle modalità extra-corporee del dominio individuale umano.


Consideriamo ora gli altri significati della « longevità », che effettivamente si riferiscono a possibilità diverse da quelle dello stato corporeo; ma, per comprendere di che si tratta esattamente, bisogna in primo luogo precisare nettamente la differenza esistente fra la «trasmutazione» e la «trasformazione».


Noi prendiamo sempre il termine « trasformazione » nella sua accezione strettamente etimologica, vale a dire quella di «passaggio al di là della forma»; in conseguenza, l'essere non potrà dirsi «trasformato » a meno che non sia effettivamente passato in uno stato sopra-individuale (poichè ogni stato individuale, qualunque sia, è per tale motivo formale); in questo caso si tratta dunque di un fatto la cui realizzazione appartiene essenzialmente ai «grandi misteri».







In riguardo al corpo stesso, la sua « trasformazione » non può essere che la sua trasposizione in modo principiale; in altri termini, ciò che si può chiamare il corpo « trasformato », è propriamente la possibilità corporea liberata dalle condizioni limitative cui è sottomessa per la sua esistenza in modo individuale (condizioni che d'altronde, come ogni limitazione, non hanno che un carattere puramente negativo), possibilità ritrovantesi necessariamente, al suo rango e alla stessa stregua di tutte le altre possibilità, nella realizzazione totale dell'essere.


Evidentemente si tratta di qualche cosa che oltrepassa ogni concezione possibile della « longevità », poiché quest'ultima, per definizione stessa, implica necessariamente una durata e per conseguenza non può andare, nella più grande estensione di cui può essere suscettibile, oltre la « perpetuità » o l'indefinità ciclica, mentre ciò di cui trattasi, appartenendo all'ordine principiale, partecipa per tal motivo all'eternità che ne è uno degli attributi essenziali; con la «trasformazione », si è dunque oltre ogni durata e non più in una qualsiasi durata, per quanto indefinitamente prolungata la si possa supporre.


Invece, la « trasmutazione » non è propriamente che un cambiamento di stato, all'interno del dominio formale comprendente tutto l'insieme degli stati individuali, od anche, più semplicemente, un cambiamento di modalità, all'interno del dominio individuale umano, il che d'altronde è il solo caso da doversi considerare di fatto; con questa « trasmutazione », ritorniamo dunque ui « piccoli misteri », cui in effetti si riferiscono le possibilità d'ordine extra-corporeo la cui realizzazione può essere compresa nel termine di « longevità », quantunque in un significato diverso da quello che in primo luogo abbiamo considerato e che non oltrepassava l'ordine corporeo stesso.


Anche in questo caso, vi sono altre distinzioni da fare, secondo trattasi di estensioni qualsiasi dell'individualità umana o della sua perfezione nello « stato primordiale »; e, per cominciare dalle possibilità dell'ordine meno elevato, diremo in primo luogo che, in certi casi e mediante speciali procedimenti appartenenti propriamente all'ermetismo o a ciò che vi corrisponde in altre tradizioni (poichè si tratta di cose particolarmente conosciute nelle tradizioni indù e estremoorientale), è concepibile che gli stessi elementi costituenti il corpo possano essere « trasmutati » e « sottilizzati » in modo tale da essere trasferiti in una modalità extra-corporea, in cui l'essere potrà esistere in condizioni meno strettamente limitate di quelle del dominio corporeo, in particolar modo nel rapporto della durata.








In tal caso, l'essere sparirà ad un certo momento senza lasciare alcuna traccia del suo corpo; d'altronde potrà, in particolari circostanze, riapparire temporaneamente nel mondo corporeo, in ragione delle  « interferenze » esistenti fra quest'ultimo e le altre modalità dello stato umano; possono così spiegarsi molti fatti che i moderni si affrettano naturalmente a qualificare come «leggende», ma in cui v'è pertanto qualche realtà.


Del resto, non bisogna scorgere in questi fatti nulla di « trascendente » nel vero senso della parola, poichè trattasi sempre di possibilità umane, la cui realizzazione d'altronde può avere soltanto interesse per un essere che rende capace di adempiere qualche «missione » speciale; al di fuori questo caso, non sarebbe tutto sommato che una semplice « digressione » durante il processo iniziatico e un arresto più o meno prolungato sulla via che deve normalmente condurre alla restaurazione dello « stato primordiale ».


È precisamente delle possibilità di questo « stato primordiale » che ci resta ancora da parlare: poichè l'essere che vi è pervenuto è già virtualmente « liberato », come già abbiamo detto, si può asserire che egli sia per tal fatto anche virtualmente « trasformato »; è evidente che la sua « trasformazione » non può essere effettiva, non essendo ancora uscito dallo stato umano, di cui ha soltanto realizzato integralmente la perfezione; ma le possibilità che egli ha acquisite riflettono e « prefigurano » in qualche modo quelle dell'essere veramente « trasformato », poichè è infatti al centro dello stato umano che si riflettono direttamente gli stati superiori.












L'essere che è stabilito a tal punto occupa una posizione realmente « centrale » in rapporto a tutte le condizioni dello stato umano, sicchè, pur senza averle oltrepassate, le domina pertanto in un certo senso, invece d'essere dominato da esse come gli uomini ordinari; ed è vero particolarmente in riguardo alla condizione temporale e alla condizione spaziale; potrà dunque, se lo vuole (ed è d'altronde certissimo che, dal grado spirituale raggiunto, mai lo vorrà senza una ragione profonda), trasportarsi in un qualsiasi momento del tempo ed in un qualsiasi luogo dello spazio; per quanto straordinaria possa apparire una tale possibilità, non è tuttavia che una conseguenza immediata della reintegrazione al centro dello stato umano; e se questo stato di perfezione umana è quello dei veri Rosa+Croce, si può comprendere quindi cosa sia in realtà la « longevità » ad essi attribuita; anzi è più di ciò che sembra implicare questa parola a prima vista, poichè è propriamente il riflesso, nel dominio umano, della stessa eternità principiale.


Questa possibilità può d'altronde, nel corso ordinario delle cose, non manifestarsi in alcun modo al di fuori; ma l'essere che l'ha acquisita la possiede ormai in maniera permanente ed immutabile, e nulla può fargliela perdere; gli è sufficiente ritirarsi dal mondo esteriore e rientrare in se stesso ogni qual volta gli convenga farlo per ritrovare sempre, al centro del suo proprio essere, la vera « fontana d'immortalità »


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Per maggiori Info. leggere anche questo Post:
http://lamisticadellanima.blogspot.it/2014/01/rosa-croce-e-rosicruciani-di-rene-guenon.html

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ROSA-CROCE - STORIA E DOTTRINA



MICHELE P.


MANIFESTI ROSACROCE di JEAN-PIERRE BAYARD











MANIFESTI ROSACROCE - FAMA FRATERNITATIS, CONFESSIO FRATERNITATIS, NOZZE CHIMICHE di Jean-Pierre Bayard



Rosacroce è il nome di una confraternita di mistici e ricercatori spirituali la cui origine si fa risalire al secolo XIV, ma che ebbe notevole influenza nella Germania del secolo XVII, e, successivamente, in tutta Europa. Ancora oggi alcune società segrete e ordini iniziatici rivendicano la propria appartenenza all'ordine dei rosa-croce.

Questo volume vede riuniti i tre testi fondamentali della dottrina rosacroce, considerati e definiti fin dal loro primo apparire, nel secolo XVII, i "manifesti rosacroce". Riemerge così nella sua purezza e nella sua essenza originaria la dottrina fondamentale che ha dato vita ad una delle più importanti organizzazioni di ricerca spirituale di ogni tempo.




MANIFESTI ROSACROCE


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ROSA-CROCE - STORIA E DOTTRINA


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MICHELE P.



ROBERT FLUDD








Fludd ‹flḁd› (o Flud), Robert (lat. Robertus de Fluctibus) - Medico e filosofo (Bearsted, Kent, 1574 - Londra 1637), il maggior rappresentante e teorico della confraternita dei Rosa+Croce.

Fortemente influenzato, oltre che dagli scritti neoplatonici, dalle interpretazioni contemporanee della cabala - ritenuta veicolo più autentico della "filosofia mosaica" - e insieme dalla tradizione paracelsiana, svolse una concezione del mondo essenzialmente emanatistica, legata a un complesso simbolismo cabalistico, alchimistico e magico, in cui i rapporti tra Dio e mondo sono sentiti come processo della primitiva unità divina, il ritorno alla quale costituisce il fine della conoscenza; questa si esplica attraverso tecniche simpatetiche e magiche.













Tra le sue opere principali:

Utriusque cosmi, maioris scilicet et minoris, metaphysica physica atque technica historia (1617-19), Medicina catholica (1629), Clavis philosophiae et alchymiae (1633), Philosophia moysaica (post., 1638).


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Fludd (o Flud), Robert (Robertus de Fluctibus). - Medico e filosofo inglese, nato nel 1574 a Milgate House (Kent), morto l'8 settembre 1637 a Londra.

Dopo avere studiato medicina a Oxford e aver viaggiato lungamente in Europa, esercitò a Londra la professione medica, nella quale pare si valesse molto di mezzi psichici.






Membro della fraternità dei Rosacroce, sarebbe stato, secondo il De Quincey, il vero fondatore della massoneria.

Come filosofo il Fludd subì fortemente l'influsso di Niccolò da Cusa e di Paracelso, insieme con quello del neoplatonismo che, affermandosi nella cultura filosofica inglese, preannunciava la scuola di Cambridge.
ll suo sistema è un emanatismo, che vede in Dio la "cusaniana coincidentia oppositorum", unico germe dell'infinita diversità delle cose: tendendo quasi, con ciò, a considerarlo identico al Nulla, in forza della sua assoluta indeterminatezza.

Ma le antitesi implicite in Dio si esplicano nel mondo: "voluntas e noluntas", luce e tenebra, caldo e freddo e via dicendo, sono le opposizioni che sviluppano dall'archetipo divino il macrocosmo del mondo e il microcosmo dell'uomo.




Le dottrine del Fludd, che audacemente fondevano speculazione filosofica e osservazione sperimentale, furono molto discusse da Keplero, Gassendi e Mersenne.

La principale opera filosofica è la Philosoplia mosaica (Gouda 1638; ed. inglese Londra 1659); per una bibliografia degli scritti v. A. Gordon, in Dictionary of nat. Biography, VII, pp. 348-50.


Le opere complete furono raccolte in 6 voll., Oppenheim-Gouda 1638; antologia delle opere del F., insieme con quelle di Paracelso, a cura di F. Freudenberg, Berlino 1918.


Fonte Enciclopedia Treccani

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DA WIKIPEDIA

Robert Fludd (o Flud, detto anche Robertus de Fluctibus Milgate House, 1574 – Londra, 8 settembre 1637) è stato un medico e alchimista inglese, esperto di teosofia.



Fu un filosofo ermetico che apparteneva in pieno alla tradizione ermetico-cabalistica del Rinascimento sviluppatasi da Marsilio Ficino e da Pico della Mirandola.

Scrisse agli inizi del Seicento il libro dal titolo Utriusque Cosmi, maiores scilicet et minores, metaphysica, physica atque technica Historia, dove il «mondo più grande» ed il «mondo più piccolo» che questa «storia» proclama di trattare sono il grande mondo dell'universo (macrocosmo) e il piccolo mondo dell'uomo (microcosmo).


Formatosi ad Oxford, viaggiò lungamente attraverso l'Europa ed infine si stabilì a Londra, dove esercitò la professione di medico. Membro del Royal College of Physicians e ammiratore di Paracelso, si appassionò ai saperi occulti, utilizzandoli anche nella sua attività di medico: critico dell'opera di Keplero e Marin Mersenne, fu a sua volta attaccato da Pierre Gassendi.



Nelle sue opere mescola esoterismo cristiano, cabala e osservazioni sperimentali: fu autore di una Apologia compendiaria Fraternitatem de Rosea Cruce suspicionis et infamiis maculis aspersam, veritatem quasi Fluctibus abluens et abstergens (1616), contro Libavius; scrive anche un Tractatus apologeticus integritatem societatis de Rosae Cruce defendens e altri quattro libri, tra cui la sua Utriusque cosmi historia contenente brevi cenni sull'universo e permeato dei Rosa Croce, e la Philosophia mosaica (uscita postuma nel 1638).

ROBERT FLUDD E LA MASSONERIA

In quanto esponente del filone ideale che ispirò e che tuttora alimenta la Massoneria tradizionalista, Robert Fludd è celebrato come maestro dal Real Ordine degli Antichi Liberi e Accettati Muratori, che venne costituito nel 1992 dalla Loggia "Intelletto e Amore" di Reggio Emilia, guidata dallo studioso Michele Moramarco.


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UTRIUSQUE COSMI, MAIORIS  SCILICET ET MINORIS, METAPHYSYCA PHYSICA ATQUE TECHNICA HISTORIA


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MICHELE P.



JOHN DEE










John Dee nacque a Londra il 13 Luglio del 1527.

Suo padre Roland Dee, proveniva da una famiglia piuttosto distinta e amava profondamente suo figlio.

Rendendosi conto delle grandi capacità di John, lo indirizzò principalmente allo studio della Letteratura Greca e Latina. Successivamente studiò a Chelmsford, nell’Essex, ma poi, avendo completato felicemente in suo curriculum di studi, verso la fine del 1542, a sedici anni di età, fu iscritto dal padre a Cambridge, nel collegio dedicato alla memoria di San Giovanni Evangelista, al Corso di Scienze Superiori.

A Cambridge Dee acquisì una grande cultura ad incredibile ritmo, lavorando sui suoi libri e nelle ore di istruzione individuale fino a diciotto ore al giorno.

Nel 1548 ottenne la laurea di Professore d'Arte e si recò a Louvain, dove insegnava diritto civile, mentre segretamente si dava allo studio delle scienze occulte. Nel 1550 lasciò Louvain per completare la sua istruzione nel Continente.


La sua fama si diffuse in Europa e a 23 anni egli tenne una lezione su Euclide di fronte a un pubblico entusiasta all'Università di Parigi. Grazie alla sua reputazione di grande filosofo, rimase per due regni a servizio della Corte Inglese.

Nel 1555, sotto il regno di Mary, venne però accusato di aver attentato con arti magiche alla vita della regina. Venne imprigionato e giudicato prima dalla Camera stellata di Westminster, che lo prosciolse, e poi da un tribunale ecclesiastico, che lo condannò. Il 29 agosto 1553 le regina Mary lo fece scarcerare.


Dee lasciò l’insegnamento pubblico e si dedicò allo studio delle antichità inglesi, raccogliendo preziosissimi cimeli. Nel 1558, in occasione dell’ascensione al trono di Elisabetta, secondogenita di Enrico VIII, Dee fu chiamato a corte e fu incaricato di redigere un oroscopo per accertare la data più favorevole alla sua incoronazione.

Annoiato dalla vita di corte, nel 1563 lasciò di nuovo l’Inghilterra e viaggiò in Belgio, Germania, Austria e Ungheria. Durane il viaggio di ritorno si formò ad Aversa, per terminare la "Monade geroglifica", che dedicò all’imperatore Massimiliano II (1527-1576). Pochi lavori sono stati ristampati in tempi moderni, con l'eccezione di "La Monade Geroglifica", che, fin dalla sua prima apparizione nel 1564 ("Monas Hyerogliphica", Antwerp, 1564), è passato attraverso sei edizioni e si trova ancor oggi. In quest'opera Dee tenta di simbolizzare l'omogeneità del l'Universo e del Creatore, ogni elemento individuale essendo descritto come componente rapportato alla Monade, rappresentato come emblema Mercuriale combinato con il punto e il Crescente Binario.


Tornato in Inghilterra, si stabilì a Greenwich, residenza estiva della regina, e si intrattenne con lei sulla pietra filosofale. Preso nuovamente dal desiderio di viaggiare nel 1571 si recò nella Lorena.














Ammalatasi la regina Elisabetta dovette tornare in Inghilterra.

Si stabilì allora Mortlake, sulla riva destra del Tamigi, a otto miglia da Londra, dove la regina si recava d'estate a respirare aria pura.

A Mortlake si sposò e per alcuni anni visse tranquillo.

Essendogli morta la moglie nel 1575, entrò sempre di più nelle grazie della regina, che spesso si recava a visitare la sua famosa biblioteca e le celebri collezioni raccolte.

Dee, nel frattempo, si dedicava alla ricerca degli Arcani della filosofia occulta e soprattutto allo studio del problema dell'Elisire Filosofico. Al principio del 1580 il Dee si mise in società con un giovane venticinquenne, detto Kelley, per studiare l'occulto; costui l'accompagnò sempre in tutti i viaggi e fu cagione delle sue sventure.

Credendo d'essere perseguitato, il 21 settembre 1583, Dee fuggì da Mortlake con la sua seconda moglie Jane Fromond, (sposata il 5 febbraio 1578), con suo figlio Arturo, allora di quattro anni, con gli altri suoi bambini, con Kelley e sua moglie (sposata in quello stesso anno) e coi servi, insieme con un tale Alberto di Lasky, nobile Polacco. Costoro, dopo molte peripezie, sbarcarono a Briel (Olanda), donde si diressero al castello del Lasky (presso Cracovia), che raggiunsero felicemente il 3 febbraio 1584.


Dee rimase soltanto cinque settimane al castello di Lasky.

Il 9 marzo del 1584 si recò a Cracovia, dove continuò le sue operazioni magiche. Dopo un soggiorno di alcuni mesi in quella città, si rimise in viaggio e giunse l’8 agosto a Praga, dove Rodolfo II, imperatore di Germania, teneva una brillantissima corte. Dee e Kelley si recarono alla corte dell’imperatore, ma Rodolfo II dubitò subito della scienza di Dee.

Dee fu così costretto a lasciare Praga e dopo molte peripezie, il 2 aprile 1585, tornò a Cracovia. Anche a Cracovia le cose non andarono bene: il re Stefano accolse Dee alla sua corte e il 27 maggio del 1585 accettò di partecipare a una seduta magica.

Ma quando si trovò all’atto pratico, si spaventò moltissimo, lasciando da solo Dee, del quale poi respinse ogni ulteriore proposta. Verso la fine di luglio del 1585, Dee tornò a Praga in pessime condizioni finanziarie. Là lo attendevano altre traversie.

Fu pedinato da un certo Francesco Pucci, un fiorentino, spia del Sant’Uffizzio, che su richiesta del vescovo di Piacenza, nunzio del papa, aveva istruzioni di condurlo a Roma e di bruciarlo come mago e negromante.

Dee si salvò grazie all’imperatore, che lo sottrasse al rogo, ma lo bandì dai suoi stati.


Un suo allievo, il nobile Guglielmo Ursino, signore di Rosenberg, burgravio di Boemia, dopo averlo difeso di fronte a Rodolfo II, l’ospitò nel suo castello di Tresbona.

In esso lo sfortunato Dee dimorò dal 1586 al 1589. Nel 1589 la regina Elisabetta lo richiamò in patria. Essendo sempre considerato un mago e un negromante, il Dee fu nuovamente veduto di mal occhio dalla corte e dal clero. Il 20 maggio 1595 la regina lo nominò rettore del Christ's College di Manchester, che egli abbandonò volontariamente nel 1604 per tornare a Mortlake.

Dopo la morte di Elisabetta nel 1603, la vita e la salute di Dee si deteriorarono rapidamente.

La sua reputazione come mago continuò ad intralciarlo e persino al College di Manchester incontrò ostilità. Il successore della regina, Giacomo I, autore di "Demonologia", in seguito divenuto il testo dei cacciatori di streghe, lo trattò sfavorevolmente, ma gli permise di vivere in relativa pace per il resto della sua vita. Dee morì nel 1608 e fu sepolto nella Chiesa di Mortlake.



SCRITTORE E SCIENZIATO



Fu uno scrittore prolifico, produsse numerosi libri e manoscritti lungo l'arco della sua vita.

Queste opere coprirono svariati argomenti: le arti, le scienze e la filosofia furono tutti rappresentanti in ammirevoli ed eruditi dettagli, alcuni così lunghi e complessi che i tipografi rifiutavano di accettarli.

Nel 1570 egli pubblicò il suo ampiamente acclamato "Introduzione alla matematica" per l'edizione inglese di "Geometria di Euclide", traduzione di Sir Henry Billingsley, Londra, 1570, un lavoro di grande originalità ed erudizione, che esercitò grande influenza sul pensiero scientifico del sedicesimo secolo.

A parte i suoi scopi letterari, fu un prodigioso collezionista di libri.

La sua biblioteca contenne circa tremila volumi e parecchie centinaia di manoscritti, superiore a qualsiasi altra raccolta nel mondo Elisabettiano. Questi, insieme con un vasto apparato di documenti celtici, antichi sigilli e genealogie, furono conservati nella sua casa di Mortlake.

La casa di Mortlake ospitò anche la sua collezione di strumenti scientifici: astrolabi, quadranti, globi, ogni sorta di strumenti ottici e di navigazione stipati nei suoi laboratori.







Nella sua "Vita Joannis Dee" (1707), Thomas Smith descrive il contenuto della biblioteca di Dee nel seguente modo: "Al nobile contenuto della Biblioteca appartenne una non moderata accumulazione di strumenti matematici ed apparecchiature, anche quelli che, a quel tempo, non erano entrati nell'uso comune e quelli che, emendati e riformati con la propria ingegnosità, aveva riportato ad una migliore condizione, tra cui erano un quadrante ed un'asta, il cui semidiametro misurava cinque piedi.

Di questi, dieci accuratamente segnati da divisioni, il globo di Mercator, furono corretti e migliorati con nuove osservazioni.

Egli aveva inserito i luoghi e i moti delle comete, che apparivano al tempo giusto, l'ottavo, il nono e il decimo delle loro sfere, secondo le ipotesi della teoria di Purbachius, ornati con un orizzonte e una meridiana di ottone.

Aveva compassi da marinaio di vari tipi, fabbricati per trovare la variazione e, infine, una sveglia che, a quell'epoca, fu considerata quasi un miracolo, adatta a misurare i minuti secondi delle ore...". Dee inventò vari strumenti di navigazione su suo disegno: tra questi un dispositivo che chiamò Compasso Paradossale, che potrebbe venire adottato per evitare errori nel tracciare le carte.

I marinai, comunque, non si fidarono di questa innovazione (o, forse, non compresero il complesso principio della sua operazione), ed esso venne usato raramente. Stranamente, furono i talenti inventivi che per primi risollevarono la sua reputazione di mago.


Nei suoi primi giorni a Cambridge fu il responsabile di una messa in scena della "Pax" di Aristofane, per la quale egli inventò una blatta meccanica o Scarabeus, che volò per aria fino al Palazzo di Jupiter, trasportando un uomo ed un cestello di cibo. Ciò lasciò così meravigliato il pubblico, che era per lo più ignorante di arti meccaniche, che si sparsero voci ad effetto secondo le quali aveva compiuto tale meraviglia con l'aiuto dei demoni. Simili credenze superstiziose in seguito (1583) fecero sì che la casa e la biblioteca di Dee fossero frugate da una moltitudine di gente mentre lui e la sua famiglia viaggiavano nel Continente.


Fonte: http://www.esonet.org/biografie-di-alchimisti/john-dee-1527-1608

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JOHN DEE


John Dee (Londra, 13 luglio 1527 – Mortlake, 26 marzo 1608) è stato un matematico, geografo, alchimista, astrologo, astronomo, navigatore e imperialista[1] inglese, presso la corte della regina Elisabetta I.

Si dedicò inoltre per la maggior parte della vita all'occultismo, alla divinazione e alla filosofia ermetica.

 Nato a Londra, il 13 luglio 1527, John Dee era il figlio unico di Roland Dee (mercante di tessuti e sarto alla corte di Enrico VIII, †; 1555) e di Jane Wild. All'età di 15 anni si trasferì a Cambridge per frequentare il St. John's College. In un diario scrisse che restava sui libri per ben 18 ore al giorno. Terminati gli studi con il baccalaureato nel 1546, fu nominato membro del Trinity College. Poco dopo fece un viaggio di studi in Olanda, dove incontrò anche Gerardo Mercatore.

Tornato in Inghilterra nel 1551 fu accusato di stregoneria: in particolare, di aver cercato di avvelenare Maria I Tudor; accusa che fu giudicata infondata, tanto che, alla morte della regina, divenne ben presto (probabilmente già dal 1558) l'astrologo di fiducia della nuova sovrana Elisabetta I.

Spesso la consigliò addirittura riguardo alle "materie occulte" ("occult matters").

Fu perfino lui a organizzare la data di incoronazione della regina Elisabetta. Dal 1581, anche grazie alla collaborazione con Edward Kelley, si occupò sempre più di soprannaturale, compresa l'arte della necromanzia.











Accusato altre volte di stregoneria, subì anche un furto di libri nella sua biblioteca ad opera di ignoti teppisti, ma non perse mai il favore di Elisabetta I.

Quest'ultima, anzi, lo nominò cancelliere della Cattedrale di San Paolo a Londra, poi sovrintendente del Christ College di Manchester, dove Dee si trasferì con la famiglia.

Qui tuttavia l'epidemia di peste che colpì la città nel 1605 sterminò i suoi cari. Nel frattempo, Dee aveva anche rotto con Kelley, rimanendo così completamente solo e poverissimo.


John Dee fu un pio cristiano, ma il suo Cristianesimo era influenzato dall'ermetismo e dalle dottrine di Platone e Pitagora.

Il nome di questo singolare matematico-astrologo-alchimista-angelologo è legato soprattutto ad una leggendaria Mano della Gloria, la Sigillum Emeth, che avrebbe fabbricato egli stesso e sarebbe andata perduta subito dopo la sua morte, avvenuta a Mortlake (Londra) nel 1608.


Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/John_Dee

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MICHELE P.