venerdì 24 gennaio 2014

IL DONO DELLE LINGUE di René Guénon


Il dono delle lingue - tratto da Considerazioni sull'Iniziazione di René Guénon:


Alla questione dell’insegnamento iniziatico e dei suoi adattamenti si ricollega abbastanza direttamente quella di ciò che è chiamato il «dono delle lingue», il quale è spesso menzionato fra i privilegi dei veri Rosa-Croce, o, per parlare più esattamente (giacché il termine «privilegio» potrebbe troppo facilmente dar luogo a false interpretazioni), fra i loro segni caratteristici, ma che è inoltre tale da sopportare una applicazione molto più estesa di quella che è in tal modo fatta a una forma tradizionale particolare. 

                                                                                                      
A dire il vero, non sembra che sia mai stato spiegato molto chiaramente cosa si debba intendere con questa espressione dal punto di vista propriamente iniziatico, giacché molti di coloro che l’hanno usata sembrano averla interpretata quasi unicamente nel suo senso più letterale, cosa che è insufficiente, quantunque indubbiamente anche il senso letterale possa in certo qual modo essere giustificato.


In effetti, il possesso di certe chiavi del linguaggio può fornire, per comprendere e parlare le lingue più diverse, mezzi molto differenti da quelli di cui si dispone abitualmente; ed è ben certo che nell’ordine delle scienze tradizionali esiste quella che potrebbe essere chiamata una filologia sacra, totalmente diversa dalla filologia profana nata nell’Occidente moderno.


Tuttavia, pur accettando questa prima interpretazione e collocandola nel suo ambito proprio, che è quello delle applicazioni contingenti dell’esoterismo, è consentito prendere in considerazione soprattutto un suo senso simbolico, di ordine più elevato, che le si sovrappone senza affatto contraddirla, e inoltre si accorda con i dati iniziatici comuni a tutte le tradizioni, siano esse d’Oriente o d’Occidente.

Da questo punto di vista si può dire che chi possiede veramente il «dono delle lingue» è colui che parla a ciascuno il suo proprio linguaggio, nel senso che si esprime sempre in una forma appropriata ai modi di pensare degli uomini a cui si rivolge.

                                                   

È anche a questo che si fa allusione, in modo più esteriore, quando si dice che i Rosa-Croce dovevano adottare il costume e le abitudini dei paesi in cui si trovavano; e qualcuno aggiunge inoltre che essi dovevano assumere un nome nuovo tutte le volte che cambiavano paese, come se rivestissero in tale circostanza una nuova individualità.


Per cui il Rosa-Croce, in virtù del grado spirituale che aveva raggiunto, non era più legato in modo esclusivo a nessuna forma definita, né alle condizioni particolari di alcun luogo determinato[1], ed è per questo che era un «Cosmopolita» nel vero senso della parola[2].


Lo stesso insegnamento si ritrova nell’esoterismo islamico: Mohyddin ibn Arabi dice che «il vero saggio non si lega a nessuna credenza», perché è al di là di tutte le credenze particolari, avendo ottenuto la conoscenza di quello che è il loro principio comune; ma è precisamente per questa ragione che egli può, a seconda delle circostanze, parlare il linguaggio proprio a ciascuna credenza.


Checché possano pensare i profani, ciò non è il frutto né di «opportunismo», né di qualche sorta di dissimulazione; al contrario, si tratta della conseguenza necessaria di una conoscenza che è superiore a tutte le forme, ma che non può essere comunicata (nella misura in cui è comunicabile) se non attraverso forme, ciascuna delle quali, per ciò stesso che è un adattamento particolare, non può convenire a tutti gli uomini indistintamente.


Per capire di cosa si tratti, si può paragonare ciò alla traduzione di uno stesso pensiero in lingue differenti: il pensiero è evidentemente sempre lo stesso, perché esso è, in sé, indipendente da ogni espressione; ma tutte le volte che è espresso in un’altra lingua, esso diventa accessibile a uomini che, in assenza di tale traduzione, non avrebbero potuto conoscerlo; e del resto questo paragone è rigorosamente conforme al simbolismo del «dono delle lingue».


È arrivato a questo punto colui che ha raggiunto, attraverso una conoscenza diretta e profonda (e non soltanto teorica e verbale), il fondo identico di tutte le dottrine tradizionali; che ha trovato, ponendosi nel punto centrale dal quale esse sono emanate, la verità una che si nasconde sotto la diversità e la molteplicità delle forme esteriori.

                                                       

La differenza, in effetti, è sempre e soltanto nella forma e nell’apparenza; il fondo essenziale è dappertutto e sempre il medesimo, perché non c’è che una sola verità, anche se ha aspetti molteplici secondo i punti di vista più o meno speciali dai quali la si considera, e poiché, come dicono gli iniziati musulmani, «la dottrina dell’Unità è unica»[3]; ma una varietà di forme è necessaria per adattarsi alle condizioni mentali di questo o quel paese, di questa o quell’epoca, o, se si preferisce, per corrispondere ai diversi punti di vista specifici che sono determinati da tali condizioni; e coloro che si fermano alla forma vedono soprattutto le differenze, al punto di prenderle talvolta addirittura per opposizioni, mentre esse, al contrario, scompaiono per coloro che vedono al di là.


Costoro possono in seguito ridiscendere nella forma, ma senza esserne più assolutamente condizionati, senza che la loro conoscenza profonda ne sia modificata in alcun modo; essi possono, così come si traggono le conseguenze da un principio, realizzare procedendo dall’alto in basso, dall’interno all’esterno (ed è in questo che la vera sintesi è, come abbiamo spiegato in precedenza, tutto l’opposto del «sincretismo» volgare), tutti gli adattamenti della dottrina fondamentale.


È in questo modo che, per riprendere sempre lo stesso simbolismo, non essendo più costretti a parlare una lingua determinata, essi possono parlarle tutte, in quanto hanno preso conoscenza del principio da cui tutte le lingue derivano per adattamento; quelle che noi qui chiamiamo "lingue" sono tutte le forme tradizionali, religiose o d’altro genere, le quali in effetti non sono che adattamenti della grande Tradizione primordiale e universale, rivestimenti diversi della verità unica.


                                                     


Coloro che hanno oltrepassato tutte le forme particolari e hanno raggiunto l’universalità, e «sanno» in tal modo ciò che gli altri possono soltanto «credere», sono necessariamente «ortodossi» nei confronti di ogni tradizione regolare; e, nello stesso tempo, sono i soli che si possono dire pienamente ed effettivamente «cattolici» ("universali"), nel senso rigorosamente etimologico della parola[4], mentre gli altri non possono mai esserlo se non virtualmente, per una sorta di aspirazione che non ha ancora realizzato il suo oggetto, o di un movimento che, pur se diretto verso il centro, non è ancora riuscito realmente a raggiungerlo.


Coloro che sono passati al di là della forma sono, per ciò stesso, liberati dalle limitazioni inerenti alla condizione individuale dell’umanità ordinaria; coloro stessi che sono giunti soltanto al centro dello stato umano, senza aver ancora realizzato effettivamente gli stati superiori, sono per lo meno, in ogni caso, affrancati dalle limitazioni per le quali l’uomo decaduto da quello «stato primordiale» nel quale essi sono reintegrati è legato a una individualità, e tutte le forme della sfera umana hanno il loro principio immediato nel punto stesso in cui essi sono situati.


Per questo essi sono in grado, come dicevamo poco fa, di rivestire individualità diverse per adattarsi a tutte le circostanze; tali individualità, per loro, non hanno veramente più importanza di semplici vestimenti.


Si può da questo comprendere cosa significhi veramente il cambiamento di nome, e ciò si ricollega naturalmente a quanto abbiamo esposto in precedenza riguardo al nomi iniziatici; negli stessi ordini monastici, la sua ragion d’essere, tutto sommato, in fondo non è diversa, giacché anche quivi l’individualità profana[5] deve scomparire per far posto a un essere nuovo, e anche quando il simbolismo non è più interamente compreso nel suo senso profondo, esso conserva tuttavia ancora, di per sé, una certa efficacia.

                                                

Se si capiscono queste poche indicazioni si capirà anche perché i veri Rosa-Croce non abbiano mai potuto costituire qualcosa che assomigli anche solo da lontano a una «società», e neppure una qualsiasi organizzazione esteriore; essi hanno indubbiamente potuto, come fanno ancora in Oriente – e soprattutto in Estremo Oriente –, iniziati d’un grado comparabile al loro, ispirare più o meno direttamente, e in qualche modo invisibilmente, organizzazioni esteriori formate temporaneamente in vista di questo o quello scopo speciale e definito; ma, benché tali organizzazioni possano per questa ragione esser dette «rosacrociane», essi non vi si legavano in alcun modo e, salvo forse in qualche caso del tutto eccezionale, non vi ricoprivano nessun ruolo apparente.


Quelli che a partire dal secolo XIV sono stati in Occidente chiamati i Rosa-Croce, e che hanno ricevuto altre denominazioni in altri tempi e in altri luoghi, giacché il nome qui ha un valore puramente simbolico e deve esso stesso adattarsi alle circostanze, non sono una qualsiasi organizzazione; essi sono la collettività degli esseri che sono pervenuti a uno stesso stato superiore a quello dell’umanità ordinaria, a uno stesso grado di iniziazione effettiva, della quale abbiamo testé indicato uno degli aspetti essenziali, e i quali possiedono inoltre gli stessi caratteri interiori, ciò che per essi basta per riconoscersi tra di loro senza aver bisogno di nessun segno esteriore.


Per questo essi non hanno altro luogo di riunione se non «il Tempio dello Spirito Santo, che è dappertutto», per cui le descrizioni che talvolta ne sono state fatte possono essere intese soltanto simbolicamente; ed è anche questa la ragione per cui essi rimangono necessariamente sconosciuti ai profani in mezzo ai quali vivono, a loro esteriormente simili, anche se completamente diversi, perché i loro soli segni distintivi sono puramente interiori e possono essere percepiti soltanto da coloro che hanno raggiunto lo stesso sviluppo spirituale, di modo che il loro influsso, che è collegato più a un’«azione di presenza» che non a una qualsiasi attività esteriore, si esercita per vie che sono totalmente incomprensibili agli uomini comuni. 

                                                 

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NOTE

[1] Potremmo aggiungere: né ad alcuna epoca particolare; ma questo, che si riferisce direttamente al carattere di «longevità», richiederebbe, per essere ben capito, spiegazioni più diffuse di quelle che possono trovar luogo qui; daremo però più avanti alcune indicazioni sulla questione della «longevità».


[2] Si sa che il nome «Cosmopolita» è servito da firma «coperta» a diversi personaggi che, quantunque non fossero essi stessi dei veri Rosa-Croce, nonostante ciò sembrano veramente essere stati utilizzati come porta-parola da questi ultimi nella trasmissione esteriore di certi insegnamenti, e potevano di conseguenza identificarsi a essi in una certa misura, in quanto sostenevano questa particolare funzione.


[3] Et-tawhîdu wâhidun.


[4] La parola «cattolico», intesa in tal modo nella sua accezione originaria, torna frequentemente negli scritti di ispirazione più o meno direttamente rosacrociana.


[5] A pieno rigore, qui occorrerebbe piuttosto dire la modalità profana dell’individualità, poiché è evidente che, nella sfera exoterica (come qui) il cambiamento non può essere abbastanza profondo da riferirsi a qualcosa di più che non a semplici modalità.


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MICHELE P.