mercoledì 29 gennaio 2014

L'INTERPRETAZIONE ESOTERICA DEL CARRO DI ARJUNA E LE COMPARAZIONI CON LA MERKAVAH DELLA MISTICA EBRAICA di Michele Perrotta



Spezzone tratto dal libro "Krishna e la metafisica del Divino Amore" di Michele Perrotta:


Secondo la nostra personalissima interpretazione esoterica, la vicenda presentata nella Bhagavad Gita sarebbe comparabile ad un elevato stato di coscienza legato al concetto di Merkavah, il carro o cocchio divino, presente nella tradizione cabbalistica del mondo ebraico.


La guerra di Kuruksetra si svolge, infatti, su un carro (qui vi sarebbe il richiamo al cocchio celeste che vide il profeta Ezechiele nella Bibbia). 

E’ attraverso questo mezzo che Krishna, archetipo del lobo destro legato all’intuito e alla fantasia, agisce da cocchiere e consigliere di Arjuna, espressione simbolica del lobo sinistro (lobo connesso  alla razionalità).







Il carro in questione, quindi, è simbolo del nostro cervello, lo strumento principale con cui possiamo contemplare, indirizzare, e allo stesso tempo veicolare, tutti nostri pensieri e le nostre energie psichiche. 


Tutto il corpo umano agisce grazie a ciò che comanda il cervello.

L’invito nascosto (sotterraneo/esoterico) della Bhagavad Gita, così come per certi versi anche quello della Bibbia, sarebbe dunque quello di non avere più una netta separazione tra il lobo destro (“Oriente”) e il lobo sinistro (“Occidente”) del cervello affinché si possa realmente ottenere la visione trascendentale che, attraverso una profonda meditazione, tutti i “meritevoli” possono ottenere per sperimentare lo stadio multidimensionale della realtà; si tratta di una visione estatica analoga a quella dovuta allo sviluppo del terzo occhio (la visione interiore) che nelle filosofie orientali viene associata al sesto Chakra, Ajna, situato al centro della fronte. 


Nella Bibbia tutto questo viene esposto, se pur in modo diverso, anche nella vicenda del profeta Elia o del patriarca Enoch, dove vengono adottati gli stessi termini: Carro; Cavalli di fuoco; Cocchio, espressioni simboliche totalmente connesse all’elevazione spirituale e all’edificazione del Corpo di Luce.

                                        


La Merkavah o “Misticismo del carro” rappresenta il “veicolo” o Corpo di Luce, spesso rappresentato da una stella tetraedro a otto punte, creato per proiettare la coscienza del mistico verso altri mondi e/o altre dimensioni.

Si tratta sostanzialmente di un corpo sottile (corpo mentale) o mezzo eterico che permetterebbe all’iniziato a questa pratica segreta di sperimentare la coscienza multidimensionale in totale connessione con il tutto. 


Con questo nome si fa riferimento anche ad una antica scuola di misticismo ebraico che si focalizzava sulle visioni spirituali del profeta Ezechiele descritte nel primo capitolo del Libro di Ezechiele e della letteratura Hekhalot, la quale riporta le storie di ascese ai cosiddetti “palazzi celesti”. 

Ovviamente questi “palazzi” non devono essere intesi letteralmente come costruzioni fisiche poiché, in realtà, sarebbero espressioni simboliche dell’ascesi mistica a più livelli che la coscienza affronterebbe in prima persona in questo complesso viaggio mistico. 

Ricordiamo che questa scienza esoterica segreta, essendo pericolosa per le potenti energie che poteva scaturire, era iniziatica e quindi proibita ai profani. 


Le omelie sulla Merkabah consistevano in descrizioni dettagliate di cieli a livelli multipli, di solito in numero di sette come gli stessi Chakra, spesso custoditi dagli angeli e circondati da fiamme e fulmini: espressioni simboliche dei guardiani della soglia che il mistico deve saper riuscire a superare.

Il più alto dei cieli contiene sette palazzi (Heikhalot) e nel palazzo più interno risiede un’immagine divina suprema (la “Gloria di Dio”/Kavod) seduta su un Trono, circondata da schiere maestose di angeli che cantano le lodi dell’Altissimo. 


La parola ebraica Merkavah, (“carro” o “biga”/ “cocchio”), derivante dalla radice consonantica r-k-b, con significato “cavalcare”, è usata nel Libro di Ezechiele (Ezechiele 1:4-26) con riferimento al carro/trono di Dio con angeli detti Chayyot (“esseri viventi”o “creature”).

La visione di Ezechiele ebbe luogo agli inizi della sua missione profetica. 

Questa potente visione del Trono di Dio è preliminare e funzionale alla consegna di un libro sacro che ha l’incarico di predicare questa scienza spirituale segreta (Ezechiele 3:4). 

Per maggiori approfondimenti su questa tematica misterica propria del misticismo ebraico rimandiamo al Vol.2 del nostro saggio La Bibbia Rivelata – Il Corpo di Luce e il Segreto del Fiore della Vita. (https://www.macrolibrarsi.it/libri/__la-bibbia-rivelata-vol-ii-libro.php


                                       



Tornando al cervello umano, l’emisfero destro, rispetto a quello sinistro, trasmette alla corteccia celebrale impulsi ben precisi secondo i quali risulterebbe più semplice pensare per immagini invece che per concetti.

Il lobo destro ha la capacità di percepire in modo globale una mappa o un insieme di immagini, cogliendo i rapporti presenti tra gli elementi che li compongono, ed ha la competenza di favorire l’istinto, la percezione, lo spirituale, l’intuito, l’onirico, l’esoterico (ciò che è nascosto alla vista comune), la fantasia, l’arte, la musica, etc., tutte facoltà tipiche dell’emisfero destro.


Attraverso una profonda meditazione, come riportato in precedenza, si otterrebbe un’unione o un ponte tra i due emisferi del cervello che favorirebbe una sorta d’introspezione della realtà di tipo cosmico come accadde ad Arjuna nel paragrafo descritto in precedenza. 


Tutto ciò avverrebbe attraverso un processo che porta i due lobi del cervello ad interagire tra loro in armonia dopo una profonda meditazione per mezzo di un secondo processo psichico-emotivo ben preciso.

In questo modo, secondo i principi dello Yoga, oltre a portare nel nostro tempio (corpo) frammenti della Luce divina, si otterrebbe una visione non dualistica delle cose dove sarebbe possibile comprendere e sperimentare in prima persona, attraverso l’esperienza diretta, che tutto è Uno e al tempo stesso scisso da quest’ultimo nel regno fisico.


La realtà è infatti duale nel mondo materiale, maschile e femminile, giorno e notte, etc., etc., mentre risulta essere unica nel mondo spirituale dove però resta sempre dipendente dall’Ente Supremo: Dio.


Le scritture vediche ci dicono che a donare il carro ad Arjuna fu Agni, il dio del fuoco, un importantissimo Deva del pantheon indù, archetipo del “Principio Igneo” che genera nell’iniziato a livello sottile “Luce” e “Calore” (poteri mistici).


                                            


Nella tradizione orientale Agni simboleggia l’Ariete, ed è figlio del cielo e della terra, rispettivamente di Dyaus e Prthivi. 

Questa divinità, secondo il Bhāgavata Purāṇa, uscì dalla bocca di Vishnu all’inizio della creazione.


Agni è la divinità del fuoco ed incarna la potenza della Luce divina; è menzionato nella tradizione vedica come un invincibile guerriero e Signore del luogo della cremazione.


Il suo fuoco brucia i demoni (Asura) che tentano di dissacrare i sacrifici ed egli è anche ritenuto il mediatore tra gli uomini e i Deva.

Questo fuoco, in sostanza, rappresenta il fuoco sacro che viene inoltre associato alla “Dea Kundala” (arrotolata) o Kundalinī (nota 58), il serpente eterico o “serpente di fuoco” della tradizione yogica, l’energia creatrice dell’universo che nell’uomo è “arrotolata” alla base della spina dorsale e che, sotto forma di Śakti (Potenza), risveglia i sette Chakra e fa proiettare la coscienza dello yogi verso superiori stadi esistenziali.


La fioritura (Sphurati) di tutti e sette i Chakra trasforma sostanzialmente il normale sentiero che percorre il sè in una “via regia” volta all’illuminazione.

I medesimi archetipi sono comparabili e comprensibili, se pur in modo non del tutto identico, attraverso un attento studio sull’Albero della vita cabbalistico (nota 59) dove tra le Sephirot (nota 60) più elevate (la triade superiore), ci riferiamo soprattutto a quella situata sotto Kether, nella parte destra dell’albero, ovvero a Chokmà (la Sefirà legata all’intuito mentre l’altra è Binà, associata alla razionalità), si ottengono le visioni e le intuizioni associate alla folgore o al cosiddetto “lampo di genio”, analogo al Nous (νοῦς), la “divina ragione” che, secondo il pensiero degli antichi filosofi greci, avrebbe la facoltà di far comprendere solo ad alcuni le realtà superiori sconosciute ai più.



Il concetto legato alla folgore è strettamente connesso alla Gnosi o “conoscenza celeste”, e quindi ad una conoscenza trascendentale che edifica in qualche modo e in maniera diretta il divino nell’uomo conducendolo a condizioni coscienziali elevatissime; questa sublime conoscenza è legata, come appena espresso, anche all’ascesi stessa di Kundalinī che si sveglia e ascende a livello sottile all’interno dell’uomo per far proiettare la coscienza del mistico nelle dimensioni astrali dove non esiste né spazio e né tempo. 





I 7 Chakra sono comparabili ai 7 cieli o ai 7 palazzi dove ascende la Merkavah, e questi simboli sono inoltre associati ai 7 sigilli dell’Apocalisse di Giovanni in cui il Cristo, rappresentazione simbolica della nostra parte divina, situata all’interno di noi, analogamente al concetto di Paramātmā, è il solo a poter aprire (nella nostra prefazione avevamo ricordato l’importanza del numero 7 negli ambienti iniziatici).


Nel Vana Parva, il terzo dei diciotto libri presenti all’interno del Mahābhārata, viene raccontato di come Arjuna, dopo il suo straordinario incontro con Shiva sulle montagne, visitò i pianeti celesti vivendo esperienze straordinarie attraverso un “carro” dove in quell’occasione potette addirittura interloquire con suo padre Indra, re degli esseri celesti.


                                                 


Tutto questo, a nostro avviso, non avvenne su questo piano di realtà bensì mediante uno stato alterato di coscienza in cui fu possibile utilizzare il corpo astrale o Corpo di Luce (Merkabah) per visitare questi pianeti superiori. Non è infatti possibile arrivare in quelle dimensioni, più sottili e allo stesso tempo più intense della nostra, con il corpo fisico.


In conclusione, come la Merkavah, “il cocchio celeste” di Ezechiele, anche il “carro” di Arjuna rappresenta simbolicamente un mezzo per l’ascesi mistica; una via verticale che tutti quanti noi, se siamo degni e se Dio lo consente, possiamo intraprendere e sperimentare nel nostro intimo: è il viaggio della coscienza in altri “piani di realtà” in perfetta beatitudine.


Si tratta sostanzialmente di un “mezzo” eterico simile al concetto di Vimāna che i Deva utilizzano per spostarsi nei vari “mondi” e dimensioni.


Per la mistica ebraica esistono quattro livelli di Merkavah, ognuno per ogni “universo/mondo cabbalistico” (Olamot): Atzilut, Briah, Yetzirah, Assiah.


Secondo la tradizione orale ebraica, si dice che addirittura Dio stesso sperimenterebbe questo “mezzo eterico” per discendere nel nostro mondo, in sostanza per illuminare le coscienze dei giusti e rettificarle mediante l’ irradiazione della Luce divina.


Il concetto di Merkavah o Merkabah sarebbe inoltre strettamente legato alla realizzazione interiore e alla costituzione del Corpo di Luce; non si tratta di un veicolo materiale o di un oggetto volante fisico come sostengono invece gli ufologi i quali citano per dar forza alle loro teorie il Vaimānika Śāstra (nota 61), un testo controverso risalente agli inizi del XX secolo scritto in sanscrito e spacciato per un antico libro sacro dell’India dove si menzionano i Vimana, indicati come “macchine volanti degli dèi” capaci di volare grazie all’utilizzo dell’energia solare.


Questo libro particolarmente sospetto fu pubblicato in forma scritta nel 1919 ed è tutt’oggi oggetto di discussioni tra chi lo considera un prezioso documento e chi lo definisce invece come un falso clamoroso.


In realtà questi potenti velivoli descritti in vari scritti indiani sono da intendere come corpi sottili capaci di trasportare la coscienza degli individui nelle sfere del sovrasensibile e nelle varie dimensioni, in altri piani di realtà.


Spesso questi mezzi vengono rappresentati trainati da cavalli o da un cigno (Haṃsa), ovvero da una simbologia specifica, di tipo strettamente iniziatica, che rimanda, secondo ciò che viene insegnato dalla tradizione indù, alla pratica meditativa, e quindi, analogamente al concetto della Merkavah ebraica, questi Vimana rappresenterebbero il prodotto interiore di un particolare processo mistico realizzato dai Deva o dagli yogin e non astronavi provenienti da altre galassie.




Il cigno o haṃsa, oltre a rappresentare la meditazione, il controllo del respiro (inspirazione- espirazione) e del Prâna, è un simbolo della nostra anima che migra da un’esistenza all’altra, e quindi, a maggior ragione, indica una simbologia spirituale che nulla ha a che vedere con una presunta ed avanzata tecnologia aeronautica bensì un preciso stato del sé di colui che tende al cielo “cavalcando il cigno” per raggiungere l’illuminazione.

Una volta raggiunto questo obiettivo, immergendosi nel Samādhi, il mistico acquisisce il grado di Paramahamsa, ovvero colui che dissolve l’ego e va “oltre il cigno” per poi divenire un Siddha, un essere perfetto che, pur avendo ancora il corpo fisico, è tuttavia un’entità realizzata pronta a viaggiare nei vari mondi.


Solo allora il mistico può andare oltre quest’ultima illusione (Māyā) e divenire un Avadhūta, “colui che ascende al cielo e passa oltre” (tutte queste tappe sono espressioni o gradi della realizzazione interiore).


Nelle ere precedenti alla nostra attuale, come abbiamo già avuto modo di spiegare, la materia era meno densa e questo, molto probabilmente, facilitava i Deva, che hanno una struttura corporea differente da quella umana, e gli uomini ad interagire con la manifestazione materiale (Prakṛti) in maniera diversa da come ci rapportiamo noi oggigiorno.

Secondo la letteratura vedica nell’antichità era più facile intercedere con entità non di questo mondo proprio perché la materia non aveva contaminato in tutto e per tutto la realtà circostante, come invece accadde dall’avvento del Kali Yuga.

Anche per questo motivo il carro di Arjuna non è da considerarsi solo un mezzo simile a quelli che conosciamo noi oggi bensì uno strumento eterico capace di trasportare la coscienza individuale in altri piani di realtà del tutto eterici e non fisici (se non altro non solidi o intensi come il nostro piano di realtà).


Dobbiamo comprendere che tali mezzi non si spostano nell’universo materiale o nel cosmo da un punto A ad un punto B bensì trasferendo il corpo etereo del vettore presso altre realtà o dimensioni più impalpabili rispetto alla nostra realtà fisica. 

Anche per queste ragioni sosteniamo che gli ufologi sbagliano nell’ostinarsi a vedere mezzi volanti fisici o astronavi aliene nei testi sacri.

A differenza dell’esoterista, del simbolista, e dello spiritualista, che scorge invece in tutto ciò un significato più profondo legato a determinati concetti spirituali volti alla trascendenza e/o all’edificazione interiore, l’ufologo ci vede sempre e solo lo zampino degli alieni.

Tutto ciò è solo un piccolo assaggio di cosa realmente può testimoniare, celare, e al tempo stesso trasmettere l’aspetto simbolico di un testo sacro di cui i mistici erano i veri custodi.

                                     


Questi archetipi, racchiusi nei racconti presenti nelle varie tradizioni sacre, sono senza tempo e provengono da un altro piano di realtà molto più elevato e più sensibile del nostro, e per essere compresi nel migliore dei modi sarebbe preferibile riuscire a conquistare un’iniziazione.


Se non si è iniziati a tali misteri, infatti, tutto ciò può essere frainteso e non compreso nella corretta maniera, ed è proprio per questo motivo che oggigiorno molti confondono il contenuto narrativo e simbolico delle Sacre Scritture interpretandole erroneamente.


Questi insegnamenti, rivestiti di potenti simboli e immagini, essendo universali e senza tempo, aiutano, ancora oggi, ogni anima condizionata a trovare quella forza interiore e quella rettitudine collocata nella via intima che migliora l’esistenza per mezzo della rinascita spirituale.


«“Dopo avermi raggiunto, le grandi anime, yogi colmi di devozione, non tornano mai più in questo mondo temporaneo e pieno di sofferenza perché hanno ottenuto la perfezione più alta.
Tutti i pianeti del mondo materiale, dal più alto al più basso, sono luoghi di miseria dove nascita e morte si susseguono ripetutamente. Ma chi raggiunge la Mia dimora, o figlio di Kunti, non rinasce più”».
(Bhagavad Gita Cap.8 verso 15-16)


Continua…

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MICHELE P.