giovedì 23 gennaio 2014

AVERROE'












Averroè (adattamento occidentale dell'arabo Ibn Rushd). - Nome con il quale è noto in Occidente il filosofo, giurista, medico e astronomo arabo di Spagna Abū l- Walīd Muḥammad ibn Rushd (Cordova 1126 - Marrākesh 1198).

Tra le sue numerosissime opere sono celebri in particolare i Commentari ad Aristotele e alcuni scritti originali, tra i quali il più noto è il Tahāfut at-tahāfut (in versione latina Destructio destructionis).


Tre la sue tesi, che influenzarono la cultura occidentale: l'indipendenza delle verità di ragione da quelle di fede (che sono un insieme di miti e di verità pratiche), l'eternità della materia e del mondo, la negazione dell'immortalità dell'anima individuale.



OPERE

Della sua vasta produzione solo una minor parte ci è giunta nel testo originale, e il più in versioni ebraiche e latine, queste ultime traduzioni anch'esse dall'ebraico.


Così è avvenuto per i suoi commenti ad Aristotele, divisi in tre gruppi: ampi, medi, ed epitomi.

Indipendenti dall'esegesi aristotelica sono invece altre opere, come il già citatoTahāfut at-tahāfut , violenta confutazione di un libro anti-filosofico di al-Ghazzālī; il Faṣl almāqal sull'accordo tra religione e filosofia, un manuale di teologia, e la parafrasi (giuntaci in versione ebraica) della Repubblica di Platone.



PENSIERO

Grande ammiratore di Aristotele, Averroè combatte spesso Avicenna come deviante dal peripatetismo puro: suo intento infatti era di liberare il pensiero aristotelico dalle deformazioni neoplatoniche dei precedenti commentatori.

Anche Averroè concepisce secondo uno schema emanatistico il processo eterno di derivazione del mondo da Dio, tuttavia ritiene che la materia coeterna a Dio, non è, come vuole Avicenna, informe per sé stessa, e ricevente quindi dal di fuori le forme, ma ab aeterno le contiene in potenza.

Le cose quindi si formano, in quanto dalla materia le Intelligenze superiori (non derivanti l'una dall'altra, secondo l'opinione di Avicenna, ma dall'unico loro principio, Dio) traggono (extractio, non creatio) all'atto le forme.


Ma la teoria averroistica che maggiormente attrasse l'interesse della cristianità fu quella dell'intelletto e del suo rapporto con l'anima umana.

Contro la concezione dominante nella filosofia araba dell'intelletto potenziale (detto anche materiale perché, come la materia, ha per sua caratteristica di essere in potenza) come intelletto umano, ossia come parte razionale dell'anima umana, Averroè separa dall'anima non solo l'intelletto agente universale, ma anche l'intelletto materiale, giacché anche questo è semplice, ingenerato, incorruttibile e immortale e costituisce un intelletto unico per tutti gli uomini.


L'intelletto potenziale è impersonale, e impersonale è quindi l'immortalità.

Questa teoria, che fa estranea all'anima umana l'intelligenza (che si unisce ai singoli solo per ricevere dalle fantasie plurime le immagini sensibili, essenziali ad attuare la sua potenzialità) e nega l'immortalità individuale, fu combattuta sul terreno filosofico da s. Tommaso. Respingendo il tentativo di conciliare Aristotele con la religione musulmana, Averroè riduceva la fede a un complesso di "miti" e di norme pratiche, necessarie per il popolo ma non per i filosofi che ne vedono il fondamento mitologico (dottrina inesattamente detta della "doppia verità").


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AVERROE', COMMENTATORE DI ARISTOTELE


Abū ’l-Walīd Muhammad ibn Rušd, il più famoso pensatore musulmano nell’Occidente medievale, nacque a Cordova nel 1126.

Operò alla corte almohade di ‘Abd al-Mu’min, Abū Ya‘qūb e Ya‘qūb al-Manhūr come giurista e medico oltre che come filosofo. Attaccato verso il 1195 per le sue idee ed esiliato a Lucena, fu poi reintegrato nelle sue funzioni a corte. Morì a Marrakesh nel 1198.

Averroè fu famoso in Occidente, sin dal Medioevo (cfr. anche Inf., IV, 144) soprattutto per i commentari a quasi tutta l’opera di Aristotele (integrata, per la politica, dalla Repubblica di Platone).


Non per questo bisogna tuttavia considerarlo seguace pedissequo dello Stagirita: nei commentari egli dimostra in modo eminente la propria indipendenza di giudizio e anche l’audacia di talune sue posizioni (si pensi alla questione degli intelletti, donde scaturì la convinzione degli averroisti latini che egli negasse l’immortalità dell’anima; l’opera di riferimento è Davidson, 1992).

Proprio nei commentari Averroè sembra esprimere più liberamente le proprie idee filosofiche: essi giocano dunque un ruolo decisivo nella ricostruzione del suo pensiero.


I possibili antecedenti storici dei commentari di Averroè sono da ravvisarsi sia nei commentari coranici, sia in quelli a opere mediche o astronomiche – e talora filosofiche: di al-Fārābī (m. 950), che però segue metodi alquanto diversi, e soprattutto dell’andaluso Ibn Bājja (m. 1139).

Averroè scrisse tre tipi di commentari: i commentari lunghi (tafsīrāt), veri e propri commenti sistematici; i commentari medi (talkhīṣāt), parafrasi delle opere aristoteliche, e i cosiddetti “commentari brevi” (jawāmi‘), in realtà epitomi in cui le dottrine di Aristotele sono rielaborate ex novo.


Il fatto che la redazione dei commentari si snodi almeno dal 1159 al 1193 (si veda Baffioni 1998, p. 11, nota 30) ne determina lo stretto legame con le altre opere di Averroè, fra le quali rilevanti per la filosofia hanno sono soprattutto quelle teologiche e il Tahāfut al-tahāfut (“La distruzione della distruzione [dei filosofi]”, probabilmente del 1180).


Un limite dei commentari è secondo Badawi (1978, pp. 61-2 e 69) che Averroè disponesse solo di traduzioni da Aristotele (per giunta talora riconosciute come poco rispondenti agli originali a noi noti, cfr. Gätje 1964, p. 59); inoltre, non possiamo sapere di quali altre opere greche egli fosse stato a conoscenza, dalle quali individuare il “senso vero” delle affermazioni di Aristotele.


L’esistenza di un consistente numero di commentari in versione ebraica e latina (nonché in arabo scritto con caratteri ebraici) ha convinto alcuni studiosi a iscrivere Averroè senz’altro fra i pensatori occidentali (cfr. soprattutto Wolfson 1961; vd. anche Gätje 1964, p. 59).

Badawi, tuttavia (1978, pp. 79-80), sottolineando gli errori e i fraintendimenti delle versioni latine, osserva che bisognerebbe ricorrere a esse solo in mancanza degli originali arabi; tale cautela è peraltro espressa, sia pure in forma più sfumata, anche da recenti editori di commentari arabi (ad es. Butterworth 1983, pp. 165-66; da rilevare che il numero di tali edizioni è sensibilmente aumentato negli ultimi decenni; bibliografia in Geoffroy 2005, p. 773, nota 101). Inversamente, Cranz (1976, pp. 123-8) coglie la ricchezza dei commentari esistenti come un motivo per cercare conciliazione fra il mondo arabo e quello ebraico.


Certo è che, mentre ricevette entusiastica accoglienza nell’Occidente medievale e rinascimentale, il pensiero di Averroè finì innegabilmente per essere presto ignorato dagli Arabi.

In un primo tempo, Cruz Hernández (1957, pp. 7-9) individuò le ragioni di tale calo di fortuna nel fatto che Averroè avesse abbandonato gli schemi di pensiero neoplatonizzanti che (sia pure, va detto, con notevoli diversificazioni da caso a caso) caratterizzavano quasi per intero la filosofia islamica.


Diciassette anni dopo (Cruz Hernández 1974, pp. 418-26), egli rilevava che solo nell’ultima parte della vita, nella piena maturità, Averroè intraprese una critica di Aristotele basata sulla lettera dei testi, contribuendo ulteriormente alla rottura con la consueta tradizione filosofica islamica.


Ancor più tardi (Cruz Hernández 1978, pp. 147-50) lo studioso evidenziò che l’obiettivo del tardo Averroè – di ricercare una filosofia intesa come “conoscenza strettamente umana” – contrastava con le esigenze socio-culturali non solo della Weltanschauung araba, ma anche di quelle cristiana ed ebraica, col carattere stesso del pensiero medievale, e infine col modo in cui Aristotele era stato fino allora recepito.

Perciò, il problema dell’aristotelismo è il punto centrale nell’interpretazione del pensiero di Averroè (ibid., p. 129).


D’altro canto, Hasan Hanafī Husaynī (1983, p. 61 ss.) ha osservato che, poiché Averroè scriveva per i suoi contemporanei musulmani, è inutile aspettarsi una trasposizione letterale di Aristotele; inoltre, l’attività commentatoriale ha finito per offrire un’immagine talora stereotipata di Averroè.

Nonostante queste e altre possibili riserve, non c’è dubbio che egli si differenziò radicalmente dal pensiero del “Primo Maestro” qual era trasmesso dalle enciclopedie e dai pensatori islamici (Cruz Hernández 1978, pp. 137-41).

Tale presa di distanza è comunemente ravvisata non solo nella critica al neoplatonismo, ma anche nell’enfatizzazione data da Averroè alla ricerca naturalistica (anche se va ugualmente riconosciuta la sua sostanziale fedeltà alla religione musulmana: Averroè era un giurista malikita, e il suo manuale di diritto è tuttora in uso; cfr. recentemente Geoffroy 2005, pp. 734-5 nonché, a esempio, Rosenthal 1958; Martínez Lorca 1993).


Pur essendo, come si evince dal celebre Faṣl al-maqāl (Trattato decisivo), la verità una sola (donde la pretesa teoria della “doppia verità” attribuitagli dagli averroisti latini è del tutto priva di fondamento), Averroè ritenne di poter distinguere due livelli di conoscenza delle Scritture, quello religioso e quello esclusivamente scientifico.

Tale aspetto è stato individuato dai critici come uno dei maggiori pregi del suo pensiero (Alonso 1940; Göllner 1967, p. 362), e oggi si trova alla base del tentativo di rivalutazione di Averroè da parte del celebre pensatore marocchino Muhammad al-Jabiri nella sua ricerca dei presupposti storici e teorici per la rinascita del pensiero – e del mondo – islamico (il lettore italiano può vedere anzitutto al-Jabri 1996).


Fonte Enciclopedia Treccani

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MICHELE P.