mercoledì 25 dicembre 2013

I RACCONTI DI BELZEBU' A SUO NIPOTE di G.I. Gurdjieff















Georges Ivanovič Gurdjieff (Alexandropol, 14 gennaio tra il 1866 e il 1877 – Neuilly, 29 ottobre 1949) è stato un filosofo, scrittore, mistico e "maestro di danze" armeno.


Il suo insegnamento combina sufismo e altre tradizioni religiose in un sistema di tecniche psicofisiche che cerca di favorire il superamento degli automatismi psicologici ed esistenziali che condizionano l'essere umano.
L'insegnamento fondamentale di Gurdjieff è che la vita umana è vissuta in uno stato di veglia apparente prossimo al sogno.


Per trascendere lo stato di sonno (o di sogno) elaborò uno specifico lavoro su sé stessi al fine di ottenere un livello superiore di vitalità e consapevolezza.

La sua tecnica prevede il raggiungimento di uno stato di calma e isolamento, a cui segue il confronto con altre persone.



Dopo aver attratto a sé un consistente numero di allievi e discepoli tra i quali vi erano persone di una certa rilevanza, fondò una scuola per lo sviluppo spirituale, chiamata Istituto per lo Sviluppo Armonico dell'Uomo.


Gurdjieff fu noto anche come insegnante di danze sacre.

La Scuola, una volta a Parigi, prende il nome di Institut Gurdjieff.


Negli anni, l'insegnamento di Gurdjieff ha influenzato diversi personaggi noti della cultura e della letteratura: fra questi, uno dei più importanti architetti statunitensi del XX secolo, Frank Lloyd Wright, che sposò in seconde nozze Olgivanna Hinzenberg, allieva di Gurdjieff e che gli tributò un pubblico riconoscimento durante un congresso svoltosi dopo la morte del maestro.

Suoi allievi furono anche la scrittrice Pamela Lyndon Travers, nota per avere creato il personaggio di Mary Poppins e René Daumal, scrittore francese che entrò in contatto con le sue idee attraverso Alexandre Gustav Salzmann, oltre alla celebre poetessa e scrittrice Katherine Mansfield che, affetta da tubercolosi, volle passare l'ultimo periodo della sua vita accanto al Maestro, vivendo quasi come un eremita in una casetta che Gurdjieff le aveva offerto nella sua tenuta.


Fra i discepoli attuali più noti, il regista teatrale inglese Peter Brook, il cui film Incontri con uomini straordinari e la sua autobiografia "I fili del tempo" riportano ampie testimonianze della sua vicinanza all'insegnamento di Gurdjieff, il cantautore e regista Franco Battiato e Alice (cantante).


L'influenza gurdjieffiana, inoltre, è presente anche nella pedagogia grazie al "Modello educativo Etievan", creato da Nathalie de Salzmann de Etievan (figlia di Alexandre e Jeanne de Salzmann) e applicato in diversi collegi del Sudamerica, diffusi tra Venezuela, Cile e Bolivia.



LA QUARTA VIA


Gurdjeff propose una sua personale classificazione delle tradizioni spirituali esistenti:

* La prima via, la "Via del Fachiro", basata principalmente su un lavoro sul corpo.

* La seconda, la "Via del Monaco", basata principalmente su un lavoro sul sentimento.

* La terza, la "Via dello Yogi", basata principalmente su un lavoro sulla mente.

Secondo Gurdjieff, le "vie" tradizionali per lo sviluppo interiore dell'uomo risultano inadatte alla vita dell'uomo occidentale, in quanto richiedono l'abbandono della vita ordinaria per dedicarsi interamente ad esse.


* La Quarta Via, la "Via dell'uomo astuto", pone l'accento sull'armonizzazione dell'uomo in tutte le sue parti costituenti, permettendogli di poter continuare la propria vita quotidiana normalmente.

La sua particolarità consiste nell'essere attiva nella vita di tutti i giorni, perché propone l'apprendimento di un "Sapere" antichissimo, tramandato esclusivamente oralmente e per pratica diretta, con il quale l'uomo addormentato può risvegliarsi dal suo torpore profondo, iniziare a conoscere se stesso, ed "aprirsi" a quelle zone luminose interiori, inesplorate e Sacre, attraverso il primo raggiungimento di una nuova qualità di Essere.


Per maggiori Info: http://it.wikipedia.org/wiki/Georges_Ivanovi%C4%8D_Gurdjieff

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I RACCONTI DI BELZEBU' A SUO NIPOTE


Ad una prima lettura, questo libro pantagruelico e rigoroso è intimidatorio persino per lettori abituati a digerire testi complessi.

Esso non elargisce i propri tesori ad un’analisi prematura o superficiale, e non ci si dovrebbe lasciare sconfiggere dall’apparente oscurità impenetrabile, né essere fuorviati dal fatto che, sebbene prenda la forma di un pionieristico romanzo di fantascienza, I racconti di Belzebù sia in realtà un veicolo di grandi idee e rivelazioni filosofiche, religiose e psicologiche.


Le barriere e le complessità del libro non sono mai il risultato di una mera postura letteraria.


Esso è labirintico per varie ragioni: perché la portata, profondità ed interrelazione di ciò che Gurdjeff cerca di fare, le proporzioni mitiche e gli elementi epici che ne rafforzano la struttura, le molte idee profonde ed inquietanti che esso contiene eludono una facile comprensione.

Il lettore serio tiene conto dell’apparentemente pomposo ma autenticamente “amichevole consiglio” di Gurdjeff secondo cui è solo dopo una terza lettura completa che si può veramente incominciare a “cercare di scandagliare la sostanza.”


Ciò che Gurdjeff cerca di fare non è nulla di meno di ciò che la sua serie di libri immodestamente intitolata si propone di presentare, ovvero tutto ed ogni cosa che abbia veramente importanza.


Il titolo principale di questa prima serie "I Racconti di Belzebù A Suo Nipote":
Una Critica Obiettivamente Imparziale della Vita dell’Uomo, è il titolo su cui si impernia la struttura del libro.



Viaggiando attraverso l’universo sulla nave interspaziale (Astronave) Karnak con il proprio nipote Hassein, Belzebù si impegna ad accrescere l’istruzione del ragazzo.

Hassein è un dodicenne sensibile, intelligente e curioso.


Nel corso del loro lungo viaggio, Hassein pone molte domande a Belzebù a proposito degli strani esseri tricerebrali che abitano un piccolo pianeta nel remoto sistema solare nel quale Belzebù fu bandito per effetto del suo ribellismo giovanile.

Hassein si sforza di comprendere perché gli esseri tricerebrali del pianeta prendano “l’effimero per Reale.”


Poiché Belzebù esiste su un piano di tempo che si estende a migliaia di anni terrestri, ed era stato bandito su Marte da eoni, il suo esilio gli offre l’occasione di osservare da vicino gli abitanti del nostro pianeta.

Belzebù racconta le sue storie ed impiega queste osservazioni della Terra dal suo osservatorio su Marte e da sei discese sulla Terra, apparentemente per istruire Hassein, ma, di fatto, per offrirci una critica imparziale della nostra vita.


Questa struttura di trama fornisce a Gurdjeff una piattaforma epica che si tiene in equilibrio fra un capitolo introduttivo di cinquanta pagine, intitolato “L’insorgere del Pensiero” ed un capitolo finale di uguale lunghezza “Dall’Autore.” In questi lunghi capitoli, Gurdjeff parla al lettore con la sua propria voce.

Verso la fine, Gurdjeff fa finalmente riferimento (e quindi, nel suo modo caratteristico, solo di passaggio) alla nostra diminuita capacità di concentrare “l’attenzione attiva” ed alla nostra dipendenza dal flusso di “associazioni automatiche.”

Egli indica che il flusso di “associazioni automatiche” dentro di noi prenda il posto di ciò che egli chiama “processo mentale di un essere attivo,” e che l’attenta lettura del suo libro possa aiutarci a sviluppare questa funzione latente.

Parlare di iperbolico sarebbe troppo poco in relazione ai Racconti di Belzebù.


Unito da così tanti punti di vista, può darsi si tratti del solo libro scritto in cui l’autore abbia studiato attentamente le reazioni del suo pubblico così attentamente per più di due decenni e lo abbia riscritto tenendo a mente queste osservazioni.


Nulla in questo libro, o nelle reazioni del lettore, è accidentale.



I Racconti di Belzebù rimane, come senz’altro Gurdjeff intendeva, il primo terreno d’incontro per chiunque sia interessato nel prendere conoscenza diretta con lui e con le sue idee.


I Racconti di Belzebù fu pubblicato la prima volta con il titolo All and Everything: Ten books in three series of which this is the First Series a New York da Harcourt Brace nel 1950 in 1238 pagine ed a Londra da Routledge & Kegan Paul nel 1950 in 1238 pagine.


Salvo le variazioni di titolo, che consistono in aggiustamenti delle frasi All and Everything, Belzeub’s Tales e An Objectively Impartial Criticism of the Life of Man, la correzione in corso di errata corrige e l’inclusione di due paragrafi omessi nella prima edizione, il testo del libro è rimasto come pubblicato la prima volta da Gurdjeff nel 1950.

Da allora, il testo è stato ripubblicato in copertina rigida ed in paperback da Dutton, Routledge e Kegan e più recentemente nel 1999 da Penguin /Arkana in un’edizione paperback con correzione cumulativa di errori di ben scarsa portata contenuti nelle edizioni precedenti.


L’eccezione è Belzebub’s Tales to His Grandson: An objective Impartial Criticism of the Life of Man.

All and Everything/First Series [Revised Edition] pubblicato a New York e a Londra da Viking Arkana nel 1992 di 1135 pagine, senza la prefazione editoriale né la descrizione di scopo, metodo e fonti.

Questa revisione è in un Inglese contemporaneo più accessibile che non la versione precedente.

Si basa in gran parte sulla traduzione francese del 1956 ed incorpora un nuovo studio del manoscritto russo; entrambi i quali sono alquanto differenti in alcuni punti rispetto al testo Inglese.


Fonte: http://www.gurdjieff.org/driscoll3.it.htm

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Fino al 1924, G.I. Gurdjieff aveva insegnato alla maniera orientale, comunicando le sue idee a un piccolo gruppo di allievi, sempre e solo in modo diretto sia nella teoria che nella pratica, senza mai permetter loro di trascrivere le indicazioni ricevute.

Ma quell'anno, in seguito a un grave incidente, egli ritenne che fosse giunto il momento di far conoscere l'insieme delle sue idee "in una forma accessibile a tutti".


Si trattava cioè di evocarle in un libro che potesse suscitare nel lettore sconosciuto una nuova e inabituale corrente di pensieri; perciò egli decise di adottare la forma, comune alle grandi tradizioni, di un racconto mitico "su scala universale" e tuttavia centrato sul problema essenziale: il significato della vita umana.

Allora, pur senza abbandonare le sue altre attività, si piegò al mestiere di scrittore, con la prontezza e il vigore che lo caratterizzavano e con quell'abilità artigianale che in gioventù gli aveva permesso di imparare tanti altri mestieri.


L'opera fu scritta in condizioni spesso difficili e nei luoghi più disparati.

Man mano che procedeva la stesura, egli ne faceva leggere ad alta voce i brani, che poi rielaborava.


Qualche anno più tardi, portato a termine il suo compito, Gurdijeff non aveva scritto solo un libro, bensì una serie di libri.


A questo insieme monumentale egli diede come titolo Di tutto e del Tutto.

I Racconti di Belzebù a suo nipote ne costituiscono la prima parte.

Sin dall'inizio intorno al libro si crea una leggenda: il suo carattere insolito fa sì che molti lo dichiarino impubblicabile.

E tuttavia nel 1948, un anno prima della sua morte, Gurdijeff ne fa preparare l'edizione in diverse lingue, e nel '50 viene pubblicato simultaneamente in America, in Inghilterra e in Austria.

Da allora è stato tradotto e pubblicato in decine di paesi, e in Italia la prima edizione, da lungo tempo esaurita, viene oggi ripresentata in versione riveduta.


Se la pubblicazione di questo libro è stata sin dall'inizio un avvenimento culturale, essa è certamente ancor più un avvenimento umano: giacché si rivolge a chiunque porti in sé le domande fondamentali a cui, a suo avviso, né la scienza né la filosofia moderna hanno dato risposta.

Questo libro sarà allora un'avventura forse difficile in una terra sconosciuta e sconcertante ma, se ha risvegliato il desiderio di viverla, sarà certamente un'avventura straordinaria.



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I racconti di Belzebù a suo nipote (G.I. Gurdjieff) - pdf - In quiete

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"Appena sorge qualche nuova religione, i suoi adepti si dividono subito in vari gruppi, e ciascun gruppo costituisce ben presto una setta. L’aspetto più strano di questa particolarità è che gli esseri appartenenti a una setta non danno mai a se stessi il nome di “settari”, perché sembra loro offensivo: son chiamati “settari” solo gli altri, quelli che non appartengono alla loro setta.
Ma dal tempo della civiltà tikliamuishiana e più particolarmente ai nostri giorni, “sapienti” sono quasisempre gli esseri che “ripetono” indefessamente la maggior quantità possibile di vuote informazioni d’ogni sorta, simili alle tiritere delle vecchiette su ciò che secondo loro si diceva nel buon tempo antico.
Laggiù quanto più uno immagazzina nozioni che non ha mai verificate, e ancor meno vissute e sentite, tanto più viene considerato dagli altri un “sapiente”. E siccome in generale non c’è e non ci può essere su alcun pianeta del Nostro Grande Universo una quantità sufficiente di beni necessari ad assicurare a ciascuno un guale benessere esteriore a prescindere da quelli che vengono chiamati i “meriti oggettivi”, ne consegue che laggiù il benessere di uno si edifica sempre sulla disgrazia di molti.
L’individualità integrale di ogni uomo deve essere necessariamente costituita di quattro personalità ben determinate e distinte.
La prima personalità indipendente non è altro che l’insieme del funzionamento automatico, tipico dell’uomo come degli animali. La totalità di questo funzionamento automatico viene chiamato per ignoranza da quasi tutta la gente “conscio”, o nel migliore dei casi, “pensiero”.
La seconda personalità è costituita dalla somma dei risultati dei dati che si depositano e si fissano nella presenza dell’uomo.
La terza parte è costituita sia dal funzionamento di base del suo organismo, sia dal gioco delle manifestazioni riflesso-motorie reciprocamente interagenti al suo interno.
La quarta personalità non è altro che la manifestazione dell’insieme dei risultati del funzionamento ormai automatizzato delle tre personalità precedenti. È ciò che gli esseri chiamano “io”.
La sfortuna degli uomini contemporanei deriva essenzialmente dal fatto che, grazie agli assurdi metodi usati ovunque per educare le giovani generazioni, la quarta personalità, che dovrebbe essere presente in ogni uomo appena raggiunta l’età responsabile, è del tutto assente, sicchè tutti, o quasi, possiedono solo le prime tre parti già descritte che, per giunta, si sono formate a casaccio e da sole".
(Tratto da I Racconti di Belzebù a suo nipote)

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MICHELE P.



PRETE GIANNI













Nelle tradizioni storico-geografiche del Medioevo europeo (dal 12° sec.), Prete Gianni è un personaggio dell’Oriente cristiano, a cui erano attribuite qualità singolari: signore o re cristiano (che in un certo momento tende a farsi cattolico), sacerdote, nemico dei musulmani, dominatore di ricchi territori d’Asia, fra cui l’India (per molto tempo gli Etiopi furono confusi con gli Indiani e con questo nome indicati). 

La leggenda del Prete Gianni passò anche nel poema epico (Orlando Furioso).


Quanto al nome Gianni, è stata proposta la sua spiegazione riportandolo a un termine di origine cuscitica, ǧān, che si trova nella parola ǧānhoy (e forse anticamente ǧānoy), usata dai sudditi per riferirsi al re di Etiopia; altra interpretazione è quella che mette in relazione Gianni con khan, titolo dei signori mongoli.

Quanto alla qualificazione di Prete (o Presbitero), essa si spiega con il carattere sacrale della regalità etiopica e del tradizionale regime ad aspetto teocratico con cui il paese è stato sempre governato, carattere che, nel passato, avrebbe fatto scambiare il re per sacerdote.


La leggenda del misterioso Prete Gianni è inoltre legata anche al Santo Graal e al Re del Mondo, come spiega Renè Guenon nel suo splendido lavoro "Le Roi du monde" (1927).


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Leggendario monarca dell'Oriente cristiano che appare nelle tradizioni storico-geografiche del Medioevo.

Il suo nome ha varie forme: in latino Presbyter Iohannes, Prester Iohannes; in italiano Prete Gianni, Preteianni, Prestogianni, Prestozane; in francese Prestre Jehan; in catalano Presta Johan, Prest Jane; in portoghese Preste João.


Questo nome ha ricevuto differenti spiegazioni a seconda dell'interpretazione che si è data alla leggenda dello stesso monarca. Il primo elemento del nome è stato messo in relazione (Yule) con l'epiteto di ὁ πρεσβύτερος che assume S. Giovanni Evangelista nella seconda e terza delle sue epistole; un cronista medievale (Giovanni di Hildesheim) credeva che Presbyter fosse un titolo assunto dal sovrano in quanto egli era superiore a tutti gli altri monarchi, come gli ecclesiastici sono superiori ai laici; altri hanno visto nel titolo di Presbyter un'allusione alle idee correnti nell'Egitto medievale circa i re cristiani di Nubia celebranti la messa sugli altari; altri (Paez) alla dignità di diacono che aveva effettivamente il sovrano dell'Etiopia.

Anche la seconda parte del nome del Prete Gianni ha avuto molte interpretazioni: chi l'ha voluta mettere in relazione col titolo di khān dei principi mongoli, altri con giān, che è il titolo dei sovrani dell'Etiopia; altri col nome Giovanni in onore dell'Apostolo e del Battista, nel qual caso Zane sarebbe soltanto la forma dialettale veneta di Giovanni.


CARATTERISTICHE DEL PRETE GIANNI NELLA TRADIZIONE MEDIEVALE



a) il fatto che egli professa la religione cristiana e che, pur non essendo cattolico, desidera istruirsi nella dottrina accolta dalla Chiesa romana (ciò che è attestato anche da tutta la corrispondenza ufficiale diretta al Prete Gianni., dalla lettera del papa Alessandro III [v. appresso] a quella di Eugenio IV).


b) la sua grandissima ricchezza in metalli preziosi e gemme (dallo scettro di smeraldi, che gli attribuisce già Ottone di Frisinga, alle ricchezze in auro et argento atque lapidibus pretiosis superiori a quelli di ogni altro uomo al mondo, secondo i Mirabilia, e sino all'epopea cavalleresca e alla descrizione ariostesca del castello "più ricco assai che forte - Ove ha dimora d'Etiopia il capo".


c) il fatto che il suo paese si trovi agli estremi confini del mondo (nell'epopea cavalleresca si arriverà ai margini del Paradiso Terrestre, dato accettato dallo stesso Ariosto).


d) l'inimicizia con i musulmani suoi contermini e quindi la possibilità di un'alleanza con gli stati cristiani di Occidente. Quest'ultimo dato, come vedremo, avrà poi importanza fondamentale in quanto provocherà storicamente i tentativi di varî stati europei (specialmente italiani) di mettersi in relazione col probabile alleato monarca d'Oriente.

Questi tratti del Prete Gianni nella tradizione sono abbastanza vaghi e imprecisi, e si spiega perciò come anche la collocazione geografica del regno del Prete sia rimasta per lungo tempo molto indeterminata, tra l'Asia e l'Africa: indecisione favorita dal significato ambiguo delle denominazioni di India ed Etiopia nella geografia medievale.



ORIGINE DELLA LEGGENDA

Questa tradizione del Prete Gianni è soltanto frutto di fantasia o non è piuttosto il ricordo di un sovrano orientale effettivamente vissuto?

Oggi si tende a credere appunto che a base della leggenda ci siano elementi storici; ma non è facile determinare quali precisamente siano.

Anzitutto la difficoltà maggiore è quella geografica, se conviene, cioè, ricercare il Prete Gianni storico tra i sovrani asiatici o fra quelli africani.


Gli studiosi che hanno accettato l'origine asiatica della leggenda hanno diversamente identificato il Prete Gianni con questo o quell'altro singolo principe asiatico (G. Oppert e F. Zarncke trovarono anche una concordanza cronologica della leggenda di Ottone di Frisinga con un fatto realmente avvenuto nel 1141 e identificarono quindi il Prete Gianni con un capo mongolo Yelutasc); come del resto gli stessi viaggiatori e scrittori medievali del sec. XIII ldentificarono il Prete Gianni con Genghiz Khān (Giacomo di Vitry), con un imperatore delle Indie nemico di Genghiz Khān (Vincenzo di Beauvais), con un principe tartaro ucciso da Genghiz Khān (Marco Polo, Alberico delle Tre Fontane), con Abaqā Khān mongolo di Persia (Annales Sancti Rudberti Salisburgensis), con un principe indiano vincitore di Genghiz Khān (Giovanni di Pian del Carpine); con un principe cinese, il cui territorio arriva sino al Fiume Azzurro (Odorico da Pordenone).


Lo Yule spiegava queste incertezze ricordando che, quando la conquista mongola aprì l'Asia ai viaggiatori europei nella seconda metà del sec. XIII, l'Europa era piena della leggenda del Prete Gianni, ed era quindi naturale che i viaggiatori cercassero "un rappresentante adeguato" della leggenda e non trovandone alcuno pienamente conforme ai dati leggendarî, tentassero di seguirne le tracce in diverse direzioni.

Non diversamente quelli che cercarono il Prete Gianni in Africa giunsero a identificarlo con principi della Nubia cristiana (v. nubia) o con il sovrano dell'Etiopia.


Quest'ultima identificazione divenne prevalente nei secoli XIV e XV, e iniziatisi i contatti diretti fra l'Etiopia e il mondo occidentale (v. etiopia: Storia), la figura del P. G. fu definitivamente confusa con quella del monarca etiope.


IL PRETE GIANNI NELLA LETTERATURA STORICA E GEOGRFICA


La tradizione del Prete Gianni appare nelle letterature occidentali in due differenti categorie di scritti: nelle opere storiche e geografiche e nell'epopea cavalleresca.

Nelle opere storiche la più antica menzione del Prete Gianni si trova nella cronaca di Ottone di Frisinga.


Il cronista tedesco, che scriveva nella seconda metà del sec. XII, riferiva notizie da lui raccolte a Viterbo, alla corte pontificia, da un vescovo di Gabula (a sud di Laodicea).



Il Prete Gianni era un cristiano nestoriano, aveva vinto i Persiani ed i Medi qualche anno prima della caduta di Edessa (1144) e, discendente dei Re Magi, voleva venire a Gerusalemme, ma si fermò al passaggio del Tigri. Poco dopo era messa in circolazione in Occidente una falsa lettera del Prete Gianni diretta all'imperatore bizantino Emanuele I Comneno.

Tale lettera sembra opera di Cristiano arcivescovo di Magonza, il quale s' ispirò anche ad alcuni tratti della leggenda di Alessandro Magno.

Successivamente si ha la lettera diretta (da Venezia) il 27 settembre 1177 dal papa Alessandro III a Iohanni illustri et magnifico Indorum regi.


Tale lettera fu affidata dal papa ad un medico Filippo, personaggio di sua fiducia, che durante un viaggio in Oriente aveva avuto occasione di raccogliere notizie sul Prete Gianni.

E il papa ricorda che, nei suoi colloquî cum magnis et honorabilibus viris del regno del Prete Gianni, Filippo ab his audivisse quod tuae voluntati sit et proposito erudiri catholica et apostolica disciplina ed accenna altresì deferentemente all'orgoglio e alle ricchezze del Prete Gianni (quanto sublimior et maior haberis et minus de divitiis et potentia tua videris inflatus).

Di questa missione inviata presso un sovrano così poco determinato nessuna ulteriore notizia si ha.


Nel successivo sec. XIII Giacomo di Vitry, arcivescovo di S. Giovanni d'Acri, ricorda nella sua Historia Hierosolymitana (scritta nel 1220) il Prete Gianni sovrano nestoriano delle Indie, mentre gli avvenimenti dell'ottava crociata (la presa di Damietta) facevano diffondere la tradizione di un sovrano cristiano della Nubia, il quale avrebbe dovuto in avvenire conquistare la Mecca contro i musulmani.


Dei grandi viaggiatori francescani di questo secolo Giovanni di Pian del Carpine parla del Prete Gianni sovrano dell'India maggiore, mentre Guglielmo di Rubruck spiegava che il Prete Gianni non si trovava nel paese del Gran Khān, ma che la leggenda era sorta a proposito di un Giovanni, principe dei Nestoriani all'epoca della presa di Antiochia da parte dei crociati (1098), principe molto vantato dai suoi sudditi, i quali plus dicebant de illo in decuplo quam veritas esset. Sic ergo exivit magna fama de illo rege Iohanne.


Et quando ego transivi per pascua eius, nullos aliquid sciebat de eo nisi Nestoriani pauci.


Marco Polo conosce il Prete Gianni sovrano dei Tartari vinto e ucciso da Genghiz Khān; "un discendente del legnaggio del Presto Giovanni e ancora si è presto Giovanni e suo nome si è Giorgio" regna a Tenduc ed è vassallo del Gran Khān.

Giovanni da Monte Corvino pone in un paese a venti giornate da Pechino quidam rex... Georgius, de secta nestorianorum christianorum, qui erat de genere illustris magni regis qui dictus fuit Presbyter Ioannes de India; e analogamente per Odorico da Pordenone il Prete Gianni è un alleato del Gran Khān.


Ma qualche anno dopo, nel 1329, il prelato domenicano francese Jourdain Catalani (di Séverac) nei suoi Mirabilia descripta parlava del sovrano dell'Etiopia negli stessi termini nei quali si soleva dire del Prete Gianni, potentior quant aliquis homo mundi et ditior in auro et argento atque lapidibus pretiosis; mentre il Libro del Conoscimento del Francescano di Castiglia dice di el preste Johan patriarca de Nubia et de Etiopia, il quale è protetto dal re cristiano Abdeselib (que quiere dizer servo de la Cruz = arabo ‛Abd aṣ-ṣalīb) sovrano etiope di muchas ciudades de Christianos pero que son negros como la pez. Da allora la leggenda del Prete Gianni si può dire fissata in Etiopia e verso lo stato cristiano di Africa si rivolge l'attenzione di viaggiatori e uomini di stato che desiderano entrare in relazione col monarca orientale (vedi etiopia: Relazioni politiche e culturali con l'Italia).



IL PRETE GIANNI NELL'EPOPEA CAVALLERESCA


Nella poesia cavalleresca la leggenda del Prete Gianni appare nel ciclo di Ugo di Alvernia (ed è caratteristico il fatto che Andrea da Barberino, traduttore italiano del romanzo, spostò la sede del P. G. in Africa, dalla valle del Tigri a quella del Nilo).

Il Guerin Meschino parla del grande trebuto che pagano (al Prete Gianni) i Saraini per non perdere l'acqua del Nilo e delle porte del Nilo, che il Prete Gianni può serrare.


Da allora nella letteratura romanzesca e nei racconti dei viaggiatori appare un nuovo carattere della leggenda del Prete Gianni: egli è il padrone del Nilo e quindi può avere un' influenza decisiva nelle guerre tra i cristiani d'Occidente e il sultano d'Egitto.

Tale leggenda è diffusa da antica data nella stessa letteratura etiopica, come in quelle occidentali e si manterrà tenace per secoli, anche dopo le prime esplorazioni dell'impero etiopico.


Così Jean de Lastic, gran maestro dei cavalieri di Rodi, scriveva il 3 luglio 1448 che Presbyter Iohannes Indorum Imperator aveva spaventato il sultano flumen Nili totum qui Aegyptum irrigat et sine quo nullus illic vivere posset surrepturum et iter aliud illi daturum simili pacto minitans; ed Alfonso il Magnanimo, re di Napoli e d'Aragona, scriveva nel 1450 al negus Zare'a Yā‛qob: ve preglianto vogliate essere solicito in far mancare le acque che corrono al Cairo.


I varî elementi della leggenda (come l'eccezionale ricchezza, la cristianità eretica, il dominio sul Nilo, ecc.) furono accolti dall'Ariosto nell'episodio del volo di Astolfo sull'Etiopia (Orlando Furioso, XXXIII), certo di gran lunga il più bell'episodio che abbia ispirato nelle letterature d'Europa la leggenda del Prete Gianni Più tardi il Dati fece argomento di un suo poemetto la leggenda.

Ma l'Etiopia nel sec. XVI veniva dischiusa alla diretta osservazione degli Europei e la leggenda fatalmente decadde.

Un ultimo lontano accenno al fasto del sovrano delle tradizioni medievali è ancora nel Berni: "Un'altra tradizion che non è buona Tien che l'Imperatore e il Prete Janni Sien maggior del Torrazzo di Cremona, Perché veston di seta e non di panni. Son spettabili viri: ognun li guarda Come tra gli altri uccelli il barbagianni".


Ma ormai il monarca favoloso era diventato un principe in rapporti politici con le varie corti d' Europa; e il suo paese leggendario era il teatro delle gesta cavalleresche di Christovam da Gama e delle lotte e ricerche scientifiche dei missionarî gesuiti portoghesi ed italiani.


Fonte Enciclopedia Treccani

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MITO NEL MEDIOEVO

Circa venti anni dopo, alla fine del XII secolo, Ottone, abate dell'Abbazia di San Biagio nella Foresta Nera, continuando la Chronica di Ottone di Frisinga, partecipante alla Seconda Crociata, riferì di un suo colloquio in Siria con un vescovo monaco che gli aveva parlato di un sovrano cristiano, re e sacerdote, che regnava su un grande impero posto oltre l'Armenia e la Persia, ma prima dell'India e della Cina.

Passò un altro mezzo secolo. Fra' Giovanni da Pian del Carpine, che, in veste di ambasciatore del Papa in Estremo Oriente, aveva assistito nel 1245 all'incoronazione del terzo Gran Khan Kuyuk, nella cronaca dei suoi viaggi (Historia Mongalorum) narra di come Ogüdai, successore di Gengis Khan, era stato sconfitto dai sudditi di un re cristiano, il Prete Gianni, che erano conosciuti come «Quegli Indiani chiamati Saraceni neri, o anche Etiopi».


Marco Polo, ne il Milione (1299), fornisce una versione molto più elaborata della storia. Il Prete Gianni è descritto come un grande imperatore, signore di un immenso dominio esteso dalle giungle indiane ai ghiacci dell'estremo nord.

I Tartari erano suoi sudditi, gli pagavano tasse ed erano l'avanguardia delle sue truppe.


Questo fino al giorno in cui non elessero Gengis Khan loro khan. Quest'ultimo, come riconoscimento della propria indipendenza, chiese in moglie una figlia del Prete Gianni. Avutone un rifiuto, gli mosse guerra. Una serie di eventi sensazionali accompagnarono la campagna militare che si chiuse con la vittoria tartara.

Per circa un secolo, nessuno più parlò di tale personaggio.



SCOPERTE GEOGRAFICHE

Il ritorno in auge della storia del Prete Gianni avvenne all'improvviso: sino a quel momento, tutti coloro che avevano parlato del regno del Prete Gianni avevano detto di star riferendo voci. John Mandeville, un viaggiatore inglese, raccontò invece di essersi recato in quel regno favoloso durante i suoi viaggi.

Nel 1355 egli fu in cura presso Jean de Bourgogne, medico di Liegi, nelle cui mani, al momento del commiato, lasciò un manoscritto: erano le sue memorie di viaggio, che da quel momento conobbero un'enorme diffusione.


I presunti viaggi del gentiluomo inglese riprendono e accreditano tutte le favole precedenti e ne aggiungono altre.

Unica annotazione, il manoscritto sembra alludere a una localizzazione africana anziché asiatica.

Nel 1371, però, mentre era in punto di morte, il medico belga confessò di essersi inventato tutto.






LA LETTERA DEL PRETE GIANNI

La prima notizia sul Prete Gianni giunse in Occidente nel 1165, quando l'imperatore bizantino Manuele I Comneno ricevette una strana lettera, da lui girata al papa Alessandro III e a Federico Barbarossa; il mittente della missiva si qualificava come «Giovanni, Presbitero, grazie all'Onnipotenza di Dio, Re dei Re e Sovrano dei sovrani».

La lettera, con linguaggio ampolloso, descriveva il regno di questo prete e re dell'estremo oriente, titolare di domini immensi che, definendosi «signore delle tre Indie», diceva di vivere in un immenso palazzo fatto di gemme, cementate con l'oro, e aveva, ogni giorno, non meno di diecimila invitati alla propria mensa. Sette re, sessantadue duchi e trecentosessantacinque conti gli facevano da camerieri.


Tra i suoi sudditi non annoverava solo uomini, ma anche folletti, nani, giganti, ciclopi, centauri, minotauri, esseri cinocefali, blemmi (creature acefale con il viso sul petto), esseri con un unico e gigantesco piede, che si muovevano strisciando sulla schiena, facendosi ombra del loro stesso piede (abitudine, quest'ultima, da cui deriva il nome di sciapodi), e così via. I suoi domini racchiudevano tutto il campionario di esseri favolosi di cui hanno parlato le letterature e le leggende medioevali.


I due imperatori non diedero peso più di tanto a quel fantasioso testo.

Il papa, per puro scrupolo (se davvero in Oriente c'era un re cristiano, per giunta prete, rispondere era un dovere), mandò una lettera composta esattamente da mille parole, in cui lo informava che, una volta giunte notizie più precise, avrebbe inviato presso di lui il vescovo Filippo da Venezia, nella duplice veste di ambasciatore e missionario, per istruire il Prete Gianni nella dottrina cristiana. È da notare che il mitico personaggio si era definito seguace del Nestorianesimo, condannato come eresia dal concilio di Efeso, secondo la quale le due nature di Gesù erano rigidamente separate, e unite solo in modo morale, ma non sostanziale.

La corrispondenza si concluse così.



CONTENUTO DELL'OPERA:

PROTOCOLLO

La missiva è indirizzata a Manuele I Comneno, Imperatore di Costantinopoli. Mittente è il leggendario Presbiter Iohannes, che si presenta attribuendosi, in deroga al topos modestiae proprio del genere epistolare, il titolo di Dominus Dominantium, Signore dei Signori.


MOTIVO DELLA LETTERA

L’estensore della missiva ha saputo per mezzo del primo ministro che il suo destinatario ha intenzione di inviargli un dono: se ne rallegra e gli chiede di accettare a sua volta i doni che egli vorrà inviargli. L’atteggiamento del Prete Gianni si fa ancora più sprezzante: rimprovera il suo destinatario di farsi onorare come un dio da parte dei suoi sudditi, e li chiama graeculi, miseri greci. Mette in primo piano la propria eccezionale generosità dichiarandosi pronto a donargli qualunque cosa egli desideri; lo invita a recarsi presso i propri domini, ricchi di ogni genere di beni; lo esorta a ricordarsi di essere un mortale e perciò di non cadere nel peccato.


IL PRETE GIANNI SI PRESENTA

Si dichiara il più grande dei sovrani esistenti sulla terra; settantadue re gli sono tributari. È un cristiano devoto e aiuta tutti i cristiani del suo regno con generose elemosine. Si propone di bandire una crociata per liberare il sepolcro di Cristo dai suoi nemici.


PRETE GIANNI PRESENTA IL SUO REGNO

Il regno del Prete Gianni si estende sulle tre indie, dove è collocata la tomba di San Tommaso apostolo, e da lì giunge fino al punto in cui sorge il sole. Settantadue province gli sono tributarie, e tra queste, solo poche sono cristiane. Il regno del Prete Gianni è ricco di animali esotici: elefanti, dromedari, cammelli, ippopotami, coccodrilli; e anche di creature straordinarie: metagallinari, cameterni, cicale mute, grifoni, sagittari, fauni, satiri, pigmei, cenocefali, giganti, monoculi, ciclopi ed altri.


FONTE MIRACOLOSA

Nel regno del Prete Gianni vi è anche una fonte miracolosa dalle diverse proprietà: scorre non lontano dal paradiso terrestre e chi ne beve le acque potrà sentire in essa un sapore diverso per ogni ora del giorno e della notte; guarisce chi beve da essa da ogni malattia e, se anziano, lo fa ringiovanire fino all’età di trentadue anni; Vi si trovano anche pietre portate lì dalle aquile, e che hanno il potere di ridare la vista e la giovinezza; inoltre queste pietre possono rendere invisibile ed estinguere cattive passioni come l’odio, l’ira, l’invidia.


IL TITOLO DI RE SACERDOTE

Il Prete Gianni, anche se sa di essere il più potente sovrano del mondo, per umiltà, non vuole per sé altro titolo se non quello di Presbyter e Rex, anche se sa che all’interno del suo regno vi sono uomini che portano lo stesso titolo.

Per maggiori Info: http://it.wikipedia.org/wiki/Prete_Gianni

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INCONTRI CON UOMINI STRAORDINARI di G.I. GURDJIEFF



Georges Ivanovič Gurdjieff è una delle più enigmatiche e soggioganti figure che abbiano traversato questo secolo.

Per molti, incontrarlo volle dire «cambiare la vita», imparare a essere: fra questi René Daumal, Katherine Mansfield, il filosofo Uspenskij. E molti furono anche i suoi nemici e denigratori, che videro in lui soltanto un mistificatore dai pericolosi poteri. Quando Gurdjieff arrivò in Francia, nel 1922, accompagnato da un piccolo gruppo di seguaci, già lo precedevano disparate leggende....


...  Per Gurdjieff, come per i sapienti antichi, velare e svelare sono lo stesso gesto, sicché tutto si troverà in queste memorie salvo un taglio di esattezza documentaria: questi ricordi, strabilianti come un sontuoso romanzo d’avventure, animati in ogni riga da una sapiente buffoneria e da un’ispida bruschezza, raccontati nella stessa maniera che usava nella vita, «con una semplicità orientale che sconcertava per la sua apparenza di ingenuità», sono per Gurdjieff innanzitutto uno strumento per iniziare il lettore alle sue dottrine, per sottoporlo a una serie di choc e di paradossi che possono orientarlo verso il risveglio.

Dal padre di Gurdjieff, splendida figura di cantore mediorientale, ai suoi imprevedibili amici e compagni in spedizioni nel cuore dell’Asia, alla ricerca della Conoscenza nascosta, vediamo sfilare davanti ai nostri occhi una serie di persone che hanno come una dimensione in più del reale, un po’ come la coscienza nel senso di Gurdjieff ha tutt’altra dimensione rispetto alla coscienza nel senso comune.

Ognuna di queste figure si impone con la concretezza dei più felici personaggi romanzeschi, ognuna contribuisce per la sua parte a illuminare in una certa prospettiva un insegnamento che mette tutto in causa, ognuna infine rispecchia, in una moltitudine di sfaccettature, il personaggio che sta al centro e parla – e indubbiamente è il più straordinario di tutti: Gurdjieff stesso, ‘l’inconoscibile Gurdjieff’.


E' in questo libro che Gurdjieff dichiara di aver incontrato il famosissimo Prete Gianni e la misteriosa Confraternita di Sarmoung.

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MICHELE P.




RUDOLF STEINER - LE OPERE SCIENTIFICHE DI GOETHE









Steiner, Rudolf - Teosofo austriaco (Kraljevica 1861 - Dornach, Basilea, 1925), fondatore dell'antroposofia. Segretario generale della sezione tedesca della Società teosofica, ne uscì (1913) per un contrasto con Annie Besant, fondando una società dissidente, detta appunto di antroposofia, che ebbe la sua sede a Dornach in un edificio detto Goetheanum. 


Propugnava un potenziamento dei mezzi conoscitivi umani mediante pratiche di meditazione e di concentrazione che dovevano portare, attraverso l'ispirazione, fino all'intuizione.

La storia era concepita da Steiner come svolgimento della lotta dualistica tra un Cristo solare e Ahriman. Importante l'influenza sulle sue concezioni del pensiero indiano e della filosofia di Nietzsche e, nel suo primo periodo, della filosofia della natura di Goethe.


Si fece inoltre attivo propugnatore delle sue idee in campo pedagogico, dando vita a un'istituzione scolastica privata, le Waldorfschulen.


Opere principali: Grundlinien einer Erkenntnistheorie der goetheschen Weltanschauung (1886); Die Philosophie der Freiheit: Grundzüge einen modernen Weltanschauung (1894); Die Mystik im Aufgange des neuzeitlichen Geisteslebens (1901); Theosophie, Einführung in übersinnliche Welterkenntnis und Menschenbestimmung (1904); Die Erziehung des Kindes vom Gesichtspunkte der Geistewissenschaft (1907); Von Jesus zu Christus (1912); Von Menschenzätsel (1916); Allgemeine Menschenkunde als Grundlage der Pädagogik (post., 1932).

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Nato a Kraljevic (Ungheria) il 27 febbraio 1861, morto a Dornach (presso Basilea) il 30 marzo 1925, fu il fondatore della cosiddetta antroposofia .

Dopo avere studiato a Vienna e avere soggiornato parecchi anni a Weimar, collaborando all'edizione delle opere di Goethe e compiendo ricerche sugli scritti filosofici e naturalistici di quest'ultimo, si convertì alla teosofia e divenne segretario generale della sezione tedesca della Società teosofica.

Uscitone nel 1913 per un dissidio con Annie Besant, che era a capo di tale società, fondò la Società antroposofica, diretta a sostenere quella divergente concezione della teosofia che lo St. propugnava sotto il nome, appunto, di antroposofia. Sede di quest'ultima società e dell'insegnamento antroposofico fu un edificio, per metà tempio e per metà scuola, che lo stesso St. eresse a Dornach nella Svizzera, col nome di Goetheanum.


Fonte Enciclopedia Treccani

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Johann Wolfgang von Goehte - Poeta, narratore, drammaturgo tedesco (Francoforte sul Meno 1749 - Weimar 1832).

Genio fra i più poderosi e poliedrici della storia moderna, si manifestò in un'epoca in cui ormai risultava operante la consapevolezza d'una acquisita libertà di sentimenti e di espressione; gli fu quindi spontaneo rendersene partecipe e anzi incrementarla segnando un cambiamento radicale nella coscienza culturale tedesca ed europea.


Definito "olimpico" per il suo equilibrio, per esso esaltato e anche censurato, e talora persino schernito, di questo equilibrio non fece oggetto di soddisfatta fruizione bensì oggetto ambizioso d'una continua, tutt'altro che olimpica ricerca, operata nei varî campi d'interesse, negli studî scientifici, nell'azione pubblica e soprattutto nella produzione poetica.

Il padre Johann Kaspar, di modesta famiglia originaria della Turingia, valente giurista e consigliere imperiale, gli fu modello nella serietà degli studî e nella inesausta curiosità; la madre Katharina Elisabeth Textor, figlia del sindaco della città e appartenente alla migliore borghesia originaria della Svevia, gli trasmise il "piacere del favoleggiare".

Cresciuto quindi in un ambiente assai scelto, ebbe un'educazione adeguata, e già a 16 anni era a Lipsia per studiarvi diritto.

Nel clima illuministicamente aperto della città fornì le sue prime prove poetiche secondo la moda anacreontica promossa da F. Hagedorn e Ch. M. Wieland, privilegiando un'espressione personalizzata contro la pedanteria moraleggiante imposta da J. Ch. Gottsched e da Ch. F. Gellert.


Così, nel 1767, scrisse in alessandrini la commedia pastorale Die Laune des Verliebten ("I capricci dell'innamorato"), che è la prima professione d'un amore agitato e irritabile.

Sulla stessa linea, tornato a Francoforte, nel 1769 scrisse la commedia d'ambiente Die Mitschuldigen ("I correi"), quadro acuto e scettico del mondo borghese.


Marginali composizioni poetiche, raccolte in Buch Annette ("Libro per Annette") e in Neue Lieder ("Canti nuovi") fanno avvertire, oltre la moda, la ricerca d'un senso inconsueto della natura.

Una grave malattia lo dispose a subire l'influsso della religiosità pietistica della madre e ancora di più dell'amica di lei, Susanne von Klettenberg, che lo orientò a cercare, come poi sempre fece, l'orma del divino nel segreto della natura.

Continua: http://www.treccani.it/enciclopedia/johann-wolfgang-von-goethe/

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LE OPERE SCIENTIFICHE DI GOETHE di Rudolf Steiner


Dall’introduzione dell’autore: "Il 18 agosto del 1787, Goethe scriveva dall’Italia a Knebel: « Dopo quanto ho veduto di piante e di pesci, presso Napoli e in Sicilia.

sarei molto tentato, se fossi più giovane dii dieci anni, di fare un viaggio in India, non già per scoprire cose nuove, ma per contemplare a modo mio quelle già scoperte».


In queste parole è indicato il punto di vista dal quale dobbiamo considerare le opere scientifiche di Goethe.

Nel caso suo non si tratta mai della scoperta di fatti nuovi, ma dell’adozione d’un nuovo punto di vista, di un determinato modo di osservare la natura.

È vero che Goethe ha fatto una serie di importanti scoperte singole, come quella dell’osso intermascellare e della teoria vertebrale del cranio, nell’osteologia, e, nel campo della botanica, quella dell’identità di tutti gli organi della pianta con la foglia caulinaria; ecc.


Ma come soffio animatore di questi particolari, dobbiamo considerare una grandiosa concezione della natura, dalla quale essi tutti sono sorretti; e sopra tutto dobbiamo vedere nella teoria degli organismi una scoperta grandiosa, tale da mettere in ombra tutto il resto: quella dell’essenza dell’organismo stesso.

Goethe ha esposto il principio per il quale un organismo è ciò ch’esso di sè ci manifesta, le cause di cui i fenomeni della vita ci appaiono la conseguenza. e tutte le questioni di principio che a tale proposito dobbiamo sollevare....".


INTRODUZIONE

I - La Genesi della dottrina della metamorfosi

II - La Genesi della dottrina di Goethe sulla formazione degli animali

III - L'essenza e il significato degli scritti goethiani sulla formazione organica

IV - Conclusione sulle concezioni morfologiche di Goethe

V - La conoscenza goethiana

VI - Dell'ordine in cui sono state disposte le opere scientifiche di Goethe

VII - Dall'arte alla scienza

VIII - La teoria goethiana della conoscenza

IX - Sapere e agire alla luce del pensiero goethiano

X - Rapporto fra il pensiero goethiano ed altre concezioni

XI - Goethe e la matematica

XII - Il principio fondamentale geologico di Goethe

XIII - Le concezioni meteorologiche di Goethe

XIV - Goethe e l'illusionismo scientifico

XV - Goethe quale pensatore e scienziato

XVI - Goethe contro l'atomismo

XVII - La concezione goethiana del mondo nei "Detti in prosa" del poeta


Le opere scientifiche di Goethe di R. Steiner (Ebook - Pdf):
http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/maestri/leoperescientifiche.pdf

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Si dice che sia Goethe che Steiner appartenevano alla confraternita dei Rosa+Croce.


MICHELE P.



LA MESSA IN Cm K427 di W.A.MOZART
















Nella storia della musica la messa in Do minore di Mozart rappresenta uno dei maggiori lasciti della musica sacra del secondo '700 ed idealmente si può considerare come il tratto d'unione fra la Messa in Si minore di Johann Sebastian Bach e la Missa solemnis in Re maggiore di Ludwig van Beethoven che intraprenderà strade diverse.



MESSA IN Cm K27


La Messa in Do minore (in tedesco Große Messe in c-Moll) K 427 (K6 417a), nota anche come Grande Messa, è una messa composta da Wolfgang Amadeus Mozart a Vienna dal negli anni 1781-1782.

L'opera è incompiuta.


Mozart si impegnò a comporre una Messa come voto, affinché la futura sposa Costanze allora ammalata guarisse e una volta divenuta sua moglie potesse condurla a Salisburgo per farla conoscere al padre Leopold che si opponeva al matrimonio.

Il 4 agosto 1782 il matrimonio ebbe luogo a Vienna, nel duomo di S. Stefano e il giorno seguente giunse anche il sospirato consenso del padre. Il viaggio a Salisburgo dovette attendere sino a luglio del 1783 sia per gli impegni di Mozart che per la gravidanza di Costanze che il 17 giugno 1783 diede alla luce il primo figlio che vivrà appena due mesi.


A Salisburgo Mozart arrivò con la partitura della messa composta per oltre la metà: Kyrie e Gloria erano completi, Sanctus e Benedictus erano composti "in particella" (la parte vocale, primo e secondo violino, basso e le parti principali dell'orchestrazione), il Credo in forma di abbozzo e non completo, l'Agnus Dei nemmeno iniziato.

La celebrazione votiva ebbe luogo nella chiesa arciabbaziale benedettina di San Pietro con brani presi da altre composizioni sacre e non nella cattedrale di Salisburgo che dipendeva da Colloredo che non aveva dimenticato la repentina interruzione del rapporto di lavoro.

Mozart non lavorò più a quest'opera.

Tra i motivi possiamo citare un editto imperiale del 1783 che limitava l'esecuzione di musica sacra con orchestra nelle chiese.


STILE


L'opera rappresenta il ritorno di Mozart alla musica sacra dopo gli anni salisburghesi.

Per la prima volta nella sua vita egli compone una messa senza i vincoli stilistici impostigli dall'arcivescovo Colloredo; non deve quindi sorprendere se nello spartito troviamo uno sfoggio di fantasia e ispirazione inusuale rispetto alla sua produzione precedente.


Il Kyrie inizia con una breve introduzione orchestrale la cui drammaticità è resa più acuta dagli strumenti a fiato prima e dall'ingresso del coro di impostazione arcaica.


Sull'introduzione del Kyrie non è molto chiara, su alcune partiture, la presenza di un quarto trombone, il trombone soprano, strumento pochissimo usato anche a quei tempi, presente solo nel kyrie, e nelle edizioni di oggi eliminato dal brano.


Con il Christe eleison la musica si addolcisce e l'assolo del soprano viene accompagnato dal coro e dai fiati.

La ripresa del Kyrie ci riporta alla drammaticità di partenza.

Il Gloria, molto ampio, si compone di sette episodi tra cui Laudamus te (cantabile), lo struggente pezzo per soprano Domine Deus (con accompagnamento contrappuntistico degli archi), Quoniam (nella forma di terzetto), Jesu Christe (un adagio), Cum Sanctu Spiritu (una fuga di raffinata composizione), il suggestivo Qui tollis (in Sol minore con doppio coro ad otto voci e basso ostinato).


Il Credo pur solamente abbozzato conteneva tuttavia abbastanza informazioni per un suo completamento ragionevolmente fedele.

Il Sanctus che culmina con la doppia fuga nell'Osanna è composto per doppio coro.


Il Benedictus è un pezzo che unisce complessità formale ad una estrema raffinatezza.

Kyrie e Gloria sono stati riutilizzati da Mozart nella cantata oratoriale del 1785 Davide penitente (K 469).


Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Messa_in_Do_minore_K_427

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GUIDA ALL'ASCOLTO


I due massimi capolavori di Wolfgang Amadeus Mozart nell'ambito della musica sacra, la Messa in do minore K. 427 (K. 417 a) e il Requiem in re minore K. 626, rimasero entrambi incompiuti.

Fu la morte a fermare per sempre la mano di Mozart mentre vergava il Lacrimosa del Requiem, mentre l'incompiutezza della Messa deve essere attribuita a cause meno tragiche.

Mozart aveva infatti iniziato a comporla per una sua autonoma decisione, uscendo per una volta dal sistema della committenza che regolava la produzione musicale dell'epoca; ma i tempi non erano maturi perché un musicista potesse liberamente dedicare il suo tempo a una composizione priva d'una precisa destinazione e quindi la Messa in do minore fu messa da parte a favore di lavori più urgenti.

Invece Mozart non lasciò mai a metà le musiche sacre connesse ai suoi impegni salisburghesi.

Non dipendere per una volta da una precisa committenza permise però a Mozart di concepire liberamente questa Messa su una scala più ampia e complessa, mentre fino allora aveva dovuto ottemperare alle imposizioni del suo "padrone", il principe-arcivescovo di Salisburgo, che dalla musica sacra pretendeva semplicità e brevità.


La Messa in do minore non obbediva dunque a una committenza, ma fu concepita da Mozart come un'offerta votiva per il superamento delle difficoltà che si frapponevano al suo matrimonio e allo stesso tempo come un dono all'amata Konstanze.

In una lettera inviata al padre da Vienna il 4 gennaio 1783, il ventisettenne Wolfgang rivela di aver fatto "una promessa nel [suo] cuore" e che "la migliore prova di questa promessa è la partitura d'una Messa che ancora aspetta d'essere completata".

Da questa stessa lettera si deduce che fin dall'inizio Mozart pensava di far eseguire la sua Messa a Salisburgo.

Effettivamente la prima volta che si recò da Vienna a Salisburgo dopo il suo matrimonio portò con sé la partitura e continuò a lavorarvi, ma il giorno previsto per l'esecuzione, il 26 ottobre 1783, la Messa era ancora incompiuta e probabilmente venne integrata con pezzi di altre messe di Mozart.


Il giorno dopo il compositore ripartì per Vienna e non avrebbe più visto la sua città natale, né avrebbe più portato a termine questa Messa, di cui aveva scritto per intero il Kyrie, il Gloria e il Sanctus-Benedictus, mentre il Credo era interrotto all'Incarnatus est e per di più era lacunoso nell'orchestrazione e l'Agnus Dei mancava totalmente.

Due anni dopo, a Vienna, avrebbe riutilizzato il Kyrie e il Gloria nell'oratorio Davide penitente K. 469.


Nonostante l'incompiutezza, la Messa in do minore è la più vasta, complessa e impegnativa composizione sacra di Mozart.


Come Bach nella Messa in si minore e Beethoven nella Missa solemnis, anche Mozart riprende qui gli stili della musica sacra delle epoche precedenti, quasi a voler ancorare saldamente la sua Messa alla tradizione.


Attinge a Bach e Händel, da lui scoperti e studiati proprio in quegli anni, e anche agli italiani, come Caldara, Porpora e Pergolesi, scrivendo una "personale summa theologica del sacro in musica, i cui principi vengono desunti da una sterminata eredità artistica dagli orizzonti europei, sviluppata più in estensione geografica che in profondità storica, non rimontando oltre i limiti del XVIII secolo, il solo che il compositore ritenesse attingibile e spiritualmente frequentabile" (Giovanni Carli Ballola).


Subito il Kyrie rivela la compenetrazione dell'elemento oggettivo dello stile sacro con quello soggettivo dell'espressione individuale, quando la severa polifonia corale e la voce grave e maestosa dei tromboni vengono amalgamate nell'intima e sofferta tonalità di do minore, o quando il dolente cromatismo del motivo dei soprani e dei contralti viene sviluppato in rigoroso stile imitato.

Al centro del Kyrie s'inserisce il luminoso solo per soprano del Christe, affettuoso omaggio alla moglie Konstanze, che cantò questa parte nella prima esecuzione della Messa.


Il Gloria si apre con una chiara reminiscenza dello stile di Händel, evidente nella stretta alternanza di possenti e gloriosi accordi e di dinamici ed esultanti passaggi contrappuntistici, con una citazione quasi letterale dell'Alleluja del Messiah.

Tutto il Gloria è concepito su scala monumentale ed è diviso in otto numeri.


Un'aria tripartita col "da capo" (Laudamus Te), un duetto per due soprani (Domine Deus) e un terzetto per due soprani e tenore (Quoniam tu solus sanctus) si alternano a due possenti episodi corali a cinque voci (Gratias agimus) e a doppio coro (Qui tollis).

È suggellato dalla grandiosa fuga del Cum Sancto Spiritu, che fornisce una conclusione adeguatamente solenne, che però Mozart sottrae a ogni manierata magniloquenza con l'inserzione di elementi del moderno linguaggio sinfonico, apportatore di un'emozione più viva e drammatica.


L'incompiuto Credo consta di due sole parti, entrambe lacunose nell'orchestrazione, che può tuttavia essere completata senza problemi insormontabili.

Il primo pezzo è un maestoso coro a cinque voci, fitto di riferimenti alla musica tardobarocca, a cominciare dall'ampia introduzione orchestrale, memore ancora una volta di Händel, in particolare delle sue Ouvertures.


L'Et incarnatus est è un altro solo offerto alla voce dell'amata Konstanze: una pagina nel cullante ritmo di siciliana, raccolta, tenera, delicata, che trasfigura il virtuosismo vocale in estatico lirismo, come nel lunghissimo vocalizzo della cadenza che unisce al soprano tre strumenti obbligati (flauto, oboe e fagotto).


È stato più volte sottolineato lo stile italianeggiante di questo brano.

Dopo questa melodiosa aria Mozart ritorna alla grandiosità tiel doppio coro col Sanctus, questa volta senza reminiscenze barocche ma con sintetico e audace stile moderno, culminante nel possente "pieni sunt coeli et terra gloria tua", che sembra raffigurare musicalmente tutta la magnificenza divina.


Qui s'innesta la fuga dell'Osanna, nel cui serrato contrappunto si scorge chiaramente Bach.


Il Benedictus è riservato alle quattro voci soliste ma non concede nulla a dolcezze melodiche d'ascendenza operistica e procede con un aspro e spigoloso contrappunto, mentre modulazioni tipicamente mozartiane a tonalità minori immergono il brano in un'atmosfera inquieta e ansiosa, prima della trionfale ripresa della fuga dell'Osanna.


Fonte: http://www.flaminioonline.it/Guide/Mozart/Mozart-Messa427.html

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W."A".MOZART- MESSA Cm K427 - KYRIE



ET INCARNATUS EST


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"...L'essere umano, che ha tentato sin dal principio di carpire e dipingere Dio, ha lasciato alle generazioni successive numerose tracce di un cammino spirituale che mostrano  la crescita compiuta dall’uomo attraverso i secoli per elogiare e compiacere Dio, passando dall'antropologia alla poesia, dall'arte alla musica, dalla psicologia alla teologia, fino ad arrivare davvero a toccare l'interiorità della propria anima con l'esperienza mistica.  Come non  ricordare San Francesco d'Assisi, che ha talmente amato Dio da spogliarsi di tutti i suoi beni materiali, mettere in pratica gli insegnamenti del  Vangelo  e   ricevere doni divini, quali le Stigmate ed altre facoltà miracolose, tra cui il saper trasmettere agli animali energie positive ed il riuscire a comunicare con essi. Come non  menzionare anche Srì Caitanya Mahaprabhu, un mistico indiano vissuto circa 500 anni fa, che è stato tanto fedele a Dio con la Bhakti (amore e devozione per il Signore) che una particolare corrente spirituale Vaisnava lo ha definito l'Avatara (“colui che discende”) di Dio stesso. Anch’egli ha compiuto cose straordinarie nel corso della sua esistenza.  Ne è una riprova esplicita persino la sacra drammaticità e la bellezza fatta in musica della Messa in Do minore K.427 di W.A.Mozart.
Dio è amore e l'anima individuale che ne deriva  è della stessa sostanza del Padre. Ciò determina che tutte  le anime hanno una  propria individualità e posseggono  in minima parte attributi divini....".
(Estratto dall'Introduzione al Testo del libro Rivelazioni sull'incarnazione - Verità, simboli e archetipi dai regni superiori di Michele Perrotta - Ediz. Youcanprint)

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"Kyrie eleison, Christe eleison."


MICHELE P.



IL FLAUTO MAGICO: L'OPERA ESOTERICA (INIZIATICA) DI W."A".MOZART












«Salute a voi iniziati!
Voi avete attraversato la notte!
Sia grazie a te, Osiride!
Sia reso grazie a te, Iside!
La Fermezza ha vinto e per premio incorona la Bellezza e la Saggezza con eterna gloria!»
(citazione tratta da 'Il flauto magico')




Il flauto magico (K 620), titolo originale "Die Zauberflöte", è un Singspiel in due atti musicato da Wolfgang Amadeus Mozart, su libretto di Emanuel Schikaneder (membro della Massoneria di Vienna, scrisse il libretto de Il flauto magico per il fratello (di loggia) Wolfgang "A". Mozart nel 1791) e con il contributo di Karl Ludwig Giesecke .


La prima rappresentazione avvenne al Theater auf der Wieden di Vienna il 30 settembre 1791 con lo stesso Schikaneder (Papageno) e Josepha Hofer (Regina della notte) diretti dal compositore.


TRAMA









ATTO I:

L'azione si svolge in una zona che per alcuni aggettivi sembra l'Egitto, trasfigurato in una dimensione fantastica e fiabesca.

Il principe Tamino sta fuggendo da un serpente e gli vengono incontro le tre dame della Regina della notte per aiutarlo.

Le dame lo presentano alla Regina della notte, Astrifiammante, che lamenta il dolore per la scomparsa della figlia Pamina, rapita dal malvagio Sarastro.

Tamino, affascinato da un ritratto della giovane, decide di andare con l'uccellatore Papageno a salvare la principessa.

Le Dame consegnano a Tamino un flauto magico e un Glockenspiel fatato a Papageno.

Tamino e Papageno si incamminano verso il tempio di Sarastro, sotto la guida di tre fanciulli.
Papageno giunge per primo al tempio e penetra persino nella stanza dove il perfido moro Monostatos tiene imprigionata Pamina.  Papageno e Pamina, scacciando Monostatos, tentano la fuga.


Tamino frattanto giunge di fronte a tre templi (Natura, Ragione e Saggezza) e si confronta con un sacerdote che, oltre a smontare l'immagine di un Sarastro cattivo, pone domande a Tamino sul suo essere uomo.

Tamino, sconcertato e disorientato, suona il flauto magico nella speranza di far comparire Pamina, invano.

Trascinato da Monostatos, viene successivamente condotto al cospetto di Sarastro (alla presenza anche di Pamina) che lo libera e gli dice che, se vorrà entrare nel suo regno con Papageno, dovrà purificarsi superando tre prove. Tamino e Pamina si riconoscono e subito si amano.



ATTO II:


Sarastro invoca Iside ed Osiride affinché aiutino spiritualmente Papageno e Tamino, che quindi iniziano la prima prova: dovranno stare in silenzio, qualunque cosa accada.

Monostatos si avvicina furtivamente a Pamina addormentata: vorrebbe baciarla, ma è cacciato da Astrifiammante che, porgendo un pugnale alla figlia, le ordina di vendicarla uccidendo Sarastro.

Monostatos, non visto, ha ascoltato tutto e minaccia di rivelare l’intrigo se Pamina non l’amerà. Sopraggiunge Sarastro; dopo aver scacciato Monostatos, si rivolge paternamente a Pamina e le spiega che solo l’amore, non la vendetta, conduce alla felicità.

Pamina cerca di parlare a Tamino, ma il giovane - essendo ancora sottoposto alla prova del silenzio - non può.


Lei crede che non l'ami più, e, colta dal dolore, medita il suicidio, ma viene fermata da tre ragazzi che le confidano che Tamino è ancora innamorato di lei.

Durante questa prova, Papageno parla con una vecchina che, poco più tardi, si rivelerà essere Papagena, una donna simile a lui e di cui subito si innamora.


Tamino e Pamina superano le due successive prove: l'attraversamento dell'acqua e del fuoco.

Ma subito dopo arrivano Astrifiammante, Monostatos e le tre dame per sconfiggere Sarastro.

Un terremoto li fa inabissare e così si celebra la vittoria del bene sul male. Pamina e Tamino vengono accolti nel regno solare di Sarastro.


Per maggiori info.:
http://it.wikipedia.org/wiki/Il_flauto_magico


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IL FLAUTO MAGICO - L'OPERA ESOTERICA DI W."A". MOZART (Opera completa Sub ITA)




Atto primo

N. 1 Introduzione Zu Hilfe! Zu Hilfe! Sonst bin ich verloren (Tamino, le tre Dame)
N. 2 Aria Der Vogelfänger bin ich ja (Papageno)
N. 3 Aria di Tamino Dies Bildnis ist bezaubernd schön (Tamino)
N. 4 Recitativo e Aria O zittre nicht, mein lieber Sohn! - Zum Leiden bin ich auserkoren (Regina della notte)
N. 5 Quintetto Hm Hm Hm (Tamino, Papageno, le tre Dame)
N. 6 Terzetto Du feines Täubchen, nur herein! (Monostatos, Pamina, Papageno)
N. 7 Duetto Bei Männern, welche Liebe fühlen (Pamina, Papageno)
N. 8 Finale primo Zum Ziele führt dich diese Bahn (i tre Fanciulli, Tamino, Primo sacerdote, Coro, Pamina, Papagena, Monostatos, Sarastro)


Atto secondo

N. 9 Marcia dei Sacerdoti
N. 10 Aria con coro O Isis und Osiris (Sarastro)
N. 11 Duetto Bewahret euch vor Weibertücken (Secondo sacerdote, Oratore)
N. 12 Quintetto Wie? Ihr an diesem Schreckensort? (le tre Dame, Tamino, Papageno)
N. 13 Aria Alles fühlt der Liebe Freuden (Monostatos)
N. 14 Aria Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen (Regina della notte)
N. 15 Aria di Sarastro In diesen heil'gen Hallen (Sarastro)
N. 16 Terzetto Seid uns zum zweitenmal willkommen (i tre Fanciulli)
N. 17 Aria Ach, ich fühl's, es ist verschwunden (Pamina)
N. 18 Coro O Isis und Osiris, welche Wonne! (Sacerdoti)
N. 19 Terzetto Soll ich dich, Teurer, nicht mehr seh'n? (Pamina, Tamino, Sarastro)
N. 20 Aria Ein Mädchen oder Weibchen wünscht Papageno sich! (Papageno)
N. 21 Finale secondo Bald prangt, den Morgen zu verkünden (i tre Fanciulli, Pamina, due Armigeri, Tamino, Coro, Papageno, Papagena, Monostatos, Regina della notte, le tre Dame, Sarastro)


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MICHELE P.

LA SHEKINAH E METATRON di Renè Guenon










La «Shekinah» e «Metatron»  - Tratto da Il Re del Mondo di Renè Guenon


Vi sono spiriti timorosi, la cui capacità di comprendere è stranamente limitata da idee preconcette, i quali sono rimasti turbati dalla denominazione stessa di «Re del Mondo», che hanno subito avvicinato a quella del Princeps hujus mundi di cui si parla nel Vangelo. Tale assimilazione, ovviamente, è del tutto erronea e priva di fondamento; per accantonarla, potremmo limitarci a far osservare che il titolo di «Re del Mondo», in ebraico e in arabo, è di solito attribuito a Dio stesso[1].


Tuttavia, dato che ciò può dar luogo a qualche osservazione interessante, considereremo a questo proposito le teorie della Cabbala ebraica concernenti gli «intermediari celesti».

Tali teorie, per altro, hanno un rapporto estremamente diretto col tema principale del presente studio.


Gli «intermediari celesti» di cui si tratta sono la Shekinah e Metatron; diremo innanzitutto che, nel suo senso più generale, la Shekinah è la «presenza reale» della Divinità. Si noti che i passi della Scrittura dove ne è fatta menzione sono soprattutto quelli in cui si tratta dell’istituzione di un centro spirituale: la costruzione di un Tabernacolo, l’edificazione dei Templi di Salomone e di Zorobabel.


Un simile centro, costituito in condizioni definite secondo la regola, doveva essere di fatto il luogo della manifestazione divina, sempre rappresentata come «Luce»; è curioso osservare che l’espressione «luogo illuminatissimo e regolarissimo», conservata dalla Massoneria, sembra proprio essere un ricordo dell’antica scienza sacerdotale che presiedeva alla costruzione dei templi e che, del resto, non era peculiare degli Ebrei; torneremo più tardi su questo argomento.

Non è il caso che ci addentriamo nello sviluppo della teoria degli «influssi spirituali» (preferiamo questa espressione alla parola «benedizioni» per tradurre l’ebraico berakoth, tanto più che tale è il senso che ha conservato in arabo la parola barakah); ma, anche limitandosi a considerare le cose da questo solo punto di vista, sarebbe possibile spiegarsi le parole di Elias Levita che Vulliaud riporta nella sua opera La Kabbale juive: «I Maestri della Cabbala hanno a questo proposito grandi segreti».


La Shekinah si presenta sotto aspetti molteplici, tra cui due principali, l’uno interno, l’altro esterno; d’altra parte vi è nella tradizione cristiana una frase che indica nel modo più chiaro questi due aspetti: «Gloria in excelsis Deo, et in terra Pax hominibus bonæ voluntatis».


Le parole Gloria e Pax si riferiscono rispettivamente all’aspetto interno, in rapporto al Principio, e all’aspetto esterno, in rapporto al mondo manifestato; e, se intendiamo in questo senso tali parole, si può capire immediatamente perché siano pronunciate dagli Angeli (Malakim) per annunciare la nascita del «Dio con noi» oppure «in noi» (Emmanuel).


Per quanto riguarda il primo aspetto, si potrebbero anche ricordare le teorie dei teologi sulla «luce di gloria» nella quale e per mezzo della quale si opera la visione beatifica (in excelsis); quanto al secondo aspetto, ritroviamo qui la «Pace» alla quale alludevamo prima e che, nel suo significato esoterico, è indicata dappertutto come uno degli attributi fondamentali dei centri spirituali situati in questo mondo (in terra).


Del resto, il termine arabo Sakînah, che è evidentemente identico all’ebraico Shekinah, si traduce con «Grande Pace», che è l’equivalente della Pax Profunda dei Rosacroce; e così si potrebbe spiegare che cosa essi intendessero per «Tempio dello Spirito Santo», come pure si potrebbero interpretare in modo preciso i numerosi testi evangelici nei quali si parla della «Pace»[2], tanto più che «la tradizione segreta concernente la Shekinah avrebbe qualche rapporto con la luce del Messia».


E sarà poi accidentale che Vulliaud, nel fornire quest’ultima indicazione[3], dica che si tratta della tradizione «riservata a coloro che seguivano la via che porta al Pardes», cioè, come vedremo poi, al centro spirituale supremo?

Questo ci induce a fare un’altra osservazione: Vulliaud parla in seguito di un «mistero relativo al Giubileo»[4], il che si ricollega in certo senso all’idea di «Pace», e a questo proposito cita il seguente testo dello Zohar (III, 52 b): «Il fiume che esce dall’Eden porta il nome di Jobel», come pure il testo di Geremia (XVII, 8): «estenderà le sue radici verso il fiume», da cui risulta che «l’idea centrale del Giubileo è la restituzione di tutte le cose al loro stato primitivo».


Si tratta chiaramente di quel ritorno allo «stato primordiale» che tutte le tradizioni contemplano e sul quale noi abbiamo avuto occasione di soffermarci un po’ nel nostro studio L’Ésotérisme de Dante; e, se si aggiunge che «il ritorno di tutte le cose al loro stato primitivo segnerà l’era messianica», coloro che hanno letto quello studio potranno ricordarsi di quanto dicevamo sui rapporti del «Paradiso terrestre» e della «Gerusalemme celeste».

Del resto, a dire il vero, qui si tratta sempre, in fasi diverse della manifestazione ciclica, del Pardes, il centro di questo mondo, che il simbolismo tradizionale di tutti i popoli paragona al cuore, centro dell’essere e «residenza divina» (Brahma-pura nella dottrina indù), come il Tabernacolo che ne è l’immagine e che perciò è detto in ebraico mishkan o «abitacolo di Dio», parola la cui radice è la stessa di Shekinah.


Secondo un altro punto di vista, la Shekinah è la sintesi delle Sephiroth; ora, nell’albero sephirotico, la «colonna di destra» è il lato della Misericordia, e la «colonna di sinistra» è il lato del Rigore[5]; dobbiamo dunque ritrovare tali aspetti anche nella Shekinah e possiamo notare subito, per collegare questo a quanto precede, che, almeno sotto un certo rispetto, il Rigore si identifica con la Giustizia e la Misericordia con la Pace[6].


«Se l’uomo pecca e si allontana dalla Shekinah, cade in balia delle potenze (Sârim) che dipendono dal Rigore»[7] e allora la Shekinah è detta «mano di rigore», il che ricorda subito il noto simbolo della «mano di giustizia»; ma, all’opposto, «se l’uomo si avvicina alla Shekinah, si libera» e la Shekinah è la «mano destra» di Dio, come dire che la «mano di giustizia» diviene allora la «mano benedicente»[8].


Sono questi i misteri della «Casa di Giustizia» (Beith-Din), che ancora una volta è una designazione del centro spirituale supremo[9]; quasi non occorre far notare che i due lati ora esaminati sono quelli in cui si ripartiscono gli eletti e i dannati nelle rappresentazioni cristiane del «Giudizio Universale».


Si potrebbe anche fare un raffronto con le due vie che i Pitagorici raffigurano mediante la lettera Y e che il mito di Ercole fra la Virtù e il Vizio rappresentava in forma essoterica; con le due porte, celeste e infernale, che presso i Latini erano associate al simbolismo di Janus; con le due fasi cicliche, ascendente e discendente[10], che presso gli Indù similmente si collegano al simbolismo di Ganêsha[11].


Insomma, da tutto questo è facile capire che cosa significhino in verità espressioni come «retta intenzione», che troveremo in seguito, e «buona volontà» («Pax hominibus bonæ voluntatis», e coloro che conoscono un po’ i vari simboli di cui abbiamo parlato vedranno come non senza motivo la festa del Natale coincida con l’epoca del solstizio d’inverno), se si ha cura di tralasciare tutte le interpretazioni esteriori, filosofiche e morali, cui hanno dato luogo dagli Stoici fino a Kant.


«La Cabbala dà alla Shekinah un paredro che porta nomi identici ai suoi e che possiede, per conseguenza, i medesimi caratteri»[12] e naturalmente ha tanti aspetti diversi quanti ne ha la Shekinah stessa; il suo nome è Metatron, nome che equivale numericamente a quello di Shaddai[13], l’«Onnipotente» (che si dice essere il nome del Dio di Abramo).


L’etimologia della parola Metatron è molto incerta; fra le diverse ipotesi formulate al riguardo una delle più interessanti è quella che la fa derivare dal caldaico Mitra, che significa «pioggia» e che, per la sua radice, ha un certo rapporto con la «luce».


D’altra parte non bisogna credere che la somiglianza con il Mitra indù e zoroastriano costituisca una ragione sufficiente per ammettere che vi sia qui un prestito del Giudaismo da dottrine straniere, perché non è certo in questo modo affatto esteriore che vanno considerati i rapporti esistenti fra le varie tradizioni; e lo stesso va detto per quanto riguarda il ruolo attribuito alla pioggia in quasi tutte le tradizioni quale simbolo della discesa degli «influssi spirituali» dal Cielo sulla Terra.


A questo proposito, bisogna notare che la dottrina ebraica parla di una «rugiada di luce» che emana dall’«Albero della Vita» e per mezzo della quale deve operarsi la resurrezione dei morti; e parla anche di una «effusione di rugiada» che rappresenta l’influsso celeste che si comunica a tutti i mondi, il che ricorda singolarmente il simbolismo alchemico e rosacroce.


«Il termine Metatron comporta tutte le accezioni di guardiano, Signore, inviato, mediatore»; egli è «l’autore delle teofanie nel mondo sensibile»[14]; è l’«Angelo della Faccia» e anche il «Principe del Mondo» (Sâr ha-ôlam): quest’ultima designazione mostra che non ci siamo affatto allontanati dal nostro argomento.


Per applicare il simbolismo tradizionale già spiegato in precedenza, potremmo dire che, come il capo della gerarchia iniziatica è il «Polo terrestre», così Metatron è il «Polo celeste»; e l’uno si riflette nell’altro, essendo con esso in relazione diretta attraverso l’«Asse del Mondo».


«Il suo nome è Mikael, il Grande Sacerdote, che è olocausto e oblazione dinanzi a Dio.

E tutto ciò che fanno gli Israeliti sulla terra si compie seguendo i tipi di quanto avviene nel mondo celeste.

Il Grande Pontefice quaggiù simboleggia Mikael, principe della Clemenza...

In tutti i passi in cui la Scrittura parla dell’apparizione di Mikael, si tratta della gloria della Shekinah»[15].


Ciò che qui è detto degli Israeliti può essere detto parimenti di tutti i popoli che possiedono una tradizione veramente ortodossa; a maggior ragione deve essere detto dei rappresentanti della tradizione primordiale da cui tutte le altre derivano e alla quale tutte sono subordinate; e questo è in rapporto con il simbolismo della «Terra Santa», immagine del mondo celeste al quale abbiamo già fatto allusione.

D’altra parte, è stato detto, Metatron non ha solo l’aspetto della Clemenza, ma anche quello della Giustizia, non è solo il «Grande Sacerdote» (Kohen ha-gadol) ma anche il «Grande Principe» (Sâr ha-gadol) e il «capo delle milizie celesti», come dire che in lui è il principio del potere regale e insieme del potere sacerdotale o pontificale al quale corrisponde propriamente la funzione di «mediatore».


Bisogna notare, del resto, che Melek, «re», e Maleak, «angelo» oppure «inviato», non sono, in realtà, che due forme di un’unica parola; inoltre, Malaki, «il mio inviato» (cioè l’inviato di Dio, o «l’angelo nel quale è Dio», Maleak ha-Elohim), è l’anagramma di Mikael[16].

È opportuno aggiungere che se, come abbiamo visto, Mikael si identifica con Metatron, ne rappresenta però soltanto un aspetto; accanto alla faccia luminosa, ve ne è una oscura, rappresentata da Samael, chiamato anch’esso Sâr ha-ôlam; torniamo qui al punto di partenza delle nostre considerazioni.


Di fatto, soltanto quest’ultimo aspetto rappresenta «il genio di questo mondo» in un senso inferiore, il Princeps hujus mundi di cui parla il Vangelo; e i suoi rapporti con Metatron, del quale è l’ombra, giustificano l’uso di una medesima designazione in un doppio senso, e al tempo stesso fanno intendere perché il numero apocalittico 666, il «numero della Bestia», è anche un numero solare[17].

Del resto, secondo sant’Ippolito[18], «il Messia e l’Anticristo hanno entrambi per emblema il leone», che è un altro simbolo solare; si potrebbe fare la stessa osservazione per il serpente[19] e per molti altri simboli.


Dal punto di vista cabbalistico, si tratta in questo caso ancora una volta delle due facce opposte di Metatron; non ci dilungheremo qui sulle teorie che si potrebbero formulare in generale su tale doppio senso dei simboli, ma diremo soltanto che la confusione fra l’aspetto luminoso e l’aspetto tenebroso costituisce propriamente il «satanismo»; e appunto in tale confusione cadono, involontariamente e certo per ignoranza (il che è una scusa ma non una giustificazione), coloro che credono di scoprire un significato infernale nella designazione di «Re del Mondo»[20].

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Note


[1] Vi è per altro una grande differenza di significato fra «il Mondo» e «questo mondo», a tal punto che, in certe lingue, esistono, per designarli, due termini affatto distinti: «il Mondo» è el-âlam, mentre «questo mondo» è ed-dunyâ.  [
2] Del resto nel Vangelo si dichiara molto esplicitamente che la pace di cui si tratta non è intesa nel senso del mondo profano (Giov., XIV, 27).
[3] La Kabbale juive, I, p. 503.
[4] Ib., pp. 506-507.
[5] Un simbolismo molto simile è espresso dalla figura medioevale dell’«albero dei vivi e dei morti», che ha inoltre un rapporto molto chiaro con l’idea di «posterità spirituale»; va osservato che l’albero sephirotico viene talora identificato con l’«Albero della Vita».
[6] Secondo il Talmud, Dio ha due seggi, quello della Giustizia e quello della Misericordia; tali seggi corrispondono anche al «Trono» e al «Seggio» della tradizione islamica. Quest’ultima divide i nomi divini, çifâtiyah, cioè quelli che esprimono gli attributi propriamente detti di Allah, in «nomi di maestà» (jalâliyah) e «nomi di bellezza» (jamâliyah), il che corrisponde a una distinzione del medesimo ordine.
[7] La Kabbale juive, I, p. 507.
[8] Secondo sant’Agostino e altri Padri della Chiesa, la mano destra rappresenta parimenti la Misericordia oppure la Bontà, mentre la mano sinistra, soprattutto in Dio, è il simbolo della Giustizia. La «mano di giustizia» è uno degli attributi comuni della regalità; la «mano benedicente» è un segno dell’autorità sacerdotale, e talvolta è stata presa come simbolo del Cristo. ‑ La figura della «mano benedicente» si trova su certe monete galliche, come pure lo swastika, talvolta a bracci ricurvi.
[9] Questo centro, o qualunque altro costruito a sua immagine, può essere descritto simbolicamente come un tempio (aspetto sacerdotale, corrispondente alla Pace) e come un palazzo o un tribunale (aspetto regale, corrispondente alla Giustizia).
[10] Si tratta delle due metà del ciclo zodiacale, che si trova frequentemente rappresentato sul portale delle chiese del medioevo con una disposizione che gli conferisce manifestamente il medesimo significato.
[11] Tutti i simboli che enumeriamo qui richiederebbero una lunga spiegazione; la daremo forse un giorno in un altro studio.
[12] La Kabbale juive, I, pp. 479-498.
[13] Il numero di ciascuno di questi due nomi, ottenuto mediante l’addizione dei valori delle lettere ebraiche di cui è formato, è 314.
[14] La Kabbale juive, I, pp. 492 e 499.
[15] Ib., pp. 500-501.
[16] Quest’ultima osservazione ricorda naturalmente queste parole: «Benedictus qui venit in nomine Domini»; esse sono dette dal Cristo, che il Pastore di Hermas assimila appunto a Mikael in un modo che può apparire piuttosto strano, ma che non deve meravigliare coloro che capiscono il rapporto che esiste fra il Messia e la Shekinah. Il Cristo è anche chiamato «Principe della Pace» ed è al tempo stesso il «Giudice dei vivi e dei morti».
[17] Questo numero è formato per esempio dal nome di Sorath, demone del Sole, e opposto come tale all’angelo Mikael; lo incontreremo più avanti con un altro significato.
[18] Citato da Vulliaud, La Kabbale juive, II, p. 373.
[19] I due aspetti opposti sono raffigurati, per esempio, dai due serpenti del caduceo; nell’iconografia cristiana sono riuniti nell’«anfisbena», il serpente a due teste, delle quali una rappresenta Cristo e l’altra Satana.
[20] Segnaliamo poi che il «Globo del Mondo», insegna del potere imperiale o della monarchia universale, viene spesso posto nella mano di Cristo, il che dimostra per altro che esso è l’emblema dell’autorità spirituale oltre che del potere temporale.

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MICHELE P.